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The Bear, sangue, sudore e lacrime in cucina

La serie appena arrivata su Disney+ è stata una delle più apprezzate e discusse negli Stati Uniti perché racconta in modo diverso, frenetico e brutale, il mondo della ristorazione.

di Davide Coppo

Cosa ne sappiamo davvero, noi amatori e amanti ma non professionisti, del “food”, questa parola di quattro lettere che ormai indica tutto ciò che è cibo, cucina e stile di vita? Quali sono le immagini e le sensazioni che ci passano dietro agli occhi, che ci influenzano nella scelta di un posto o di una ricetta? Come è stato mostrato, questo mondo, negli ultimi dieci anni tramite i media? A me viene in mente uno sottofondo di musica orchestrale, magari un po’ di jazz, oppure quel violino sinuoso di Chef’s Table, e poi, a scorrere, immagini di piatti elaborati, oppure rassicuranti e casalinghi, colorati, messi lì proprio per bene, che ti fanno venire voglia di fotografarli, mangiarli, tastarli. Oppure mi viene in mente un certo filone del ritorno alla natura, piccoli produttori con le loro piccole mele, allevamenti sostenibili, grani antichi, grembiuli di lino o canapa, mani sporche di farina battute al ralenti con la nuvoletta bianca che esplode lenta e silenziosa nell’aria intorno. Oppure ancora lo chef supereroe che va in un ristorante sconosciuto a mettere tutto sottosopra disegnando un menù che non verrà mai realizzato davvero. E il giornalista-gonzo che cammina zaino in spalla per un wet market di Ho Chi Minh assaggiando noodles, peperoncini, cavallette, facendo “mmmh”, ostentando tutto il suo coraggio che ci vuole per provare queste pazze abitudini alimentari extra-europee. Tutto bello, a tratti, interessante, a tratti, rassicurante, soprattutto. Mancava di vedere come funziona, dietro alle quinte, una cucina di quelle vere, una di quelle da Paese reale, diremmo in questo momento molto populista. Da pancia del Paese, anzi. Per farlo, a ottobre del 2022, è arrivato The Bear.

The Bear, dal 5 ottobre disponibile su Disney+, fa una cosa che non aveva ancora fatto nessuno: mostrare che a lavorare nelle cucine non si sentono i violini in crescendo di Chef’s Table, non si passa il tempo a disporre fiorellini edibili con le pinzette e i guanti di polietilene neri su carote crude spolverate di sommacco, non si guarda con gli occhi pieni di orgoglio e passione la sala che assaggia i piatti e sorride, estasiata dalla magia del sapore. Invece si taglia, si affettano cipolle, prezzemolo, si fa il brodo, si controlla il brodo, si filtra il brodo, si pulisce, ci si scontra, si urla, si controllano le forniture, gli ordini sono sbagliati! Perché la carne non è ancora arrivata? Il frigo perde, mettici uno straccio, l’impastatrice si è rotta. Dobbiamo aprire tra un’ora!

The Bear è una serie tv straordinaria per questo motivo qui: non è tanto quello che racconta, è come lo racconta. La storia è una storia di memoria e di famiglia, due ingredienti che ci sono sempre quando si parla di cibo: Carmy è uno dei migliori chef del mondo, affascinante, malinconico e muscoloso il giusto, che lascia la cucina di un super-ristorante («il migliore d’America», dice la sua nuova stagista nella prima puntata) per tornare a casa, a Chicago, a risollevare la paninoteca del fratello suicida. Da qui, la serie si trasforma in un Cucine da incubo veramente da incubo, e con tutto il contorno della tragedia familiare italo-americana a supporto. Ricordi, rimpianti, nostalgie di un’infanzia scomparsa: cucina, insomma.

Negli Stati Uniti la serie è uscita qualche settimana fa, e diversi professionisti della cucina ne hanno commentato il successo con diverse frasi e concetti che si riassumono in: «Finalmente un po’ di realtà». Il ristorante-sandwich-shop, che si chiama The Original Beef of Chicagoland, prima dell’era che inizia con Carmy, fa acqua da tutte le parti: la brigata è anarchica, le forniture sono scadenti, non c’è un sistema di lavoro, e soprattutto ci sono debiti, enormi, ovunque. Non c’è un motivo preciso per cui Carmy lascia i palcoscenici stellati per tornare nel ristorante del fratello morto: lo stratagemma narrativo per rispondere a quella domanda arriva dopo pochi minuti della prima puntata, quando la stagista Sydney, che conosce Carmy per la sua carriera precedente, gli chiede: «Io so chi sei. Cosa ci sei venuto a fare qui?», e lui: «A fare panini». Bene, fatto: andiamo avanti, andiamo al sodo.

Il montaggio, in The Bear, è centrale più della trama, più del cibo (che si vede molto poco), più di tutto: taglia, soffriggi, pulisci, lava, attenta a non scottarti! Ti sei scottato. Non c’è tempo, spegni il forno. Tira fuori la carne. Attenta dietro! Tavolo uno: pronto! Veloci con questi peperoni. Sì chef! Taglia, soffriggi. Non far bruciare niente. È bruciato? Butta via, ricomincia. Veloce! Sembra un videoclip musicale degli anni Novanta, sincopato come una pagina di Bret Easton Ellis. Poca musica, molti rumori ambientali, molte urla. Un ambiente stretto, corpi che si urtano, fuoco, padelle ustionanti: l’ansia che il girato di The Bear riesce a trasmettere è l’ingrediente segreto di questo piccolo show in cui non si esce quasi mai dalla cucina. Non viene spiegato quasi niente allo spettatore su cosa c’è nei panini di The Original Beef, quali siano esattamente le mansioni dei cuochi, quanti pasti vadano fatti ogni giorno. Né di come funzionava o dovrebbe funzionare: non c’è tempo! È un modo di non fare divulgazione, e farlo quindi sentire interessato ma al sicuro, ma buttarlo nella mischia. Una recluta in guerra.

Tutta la frenesia, l’ansia, questo stress che Carmy – e non solo lui – rielabora come incubi notturni, irascibilità, solitudine, catatonia, insomma come un Ptsd (disturbo post-traumatico da stress) fatto e finito, è una chiave di lettura parallela al pianeta della cucina che parla all’universo del lavoro in senso più ampio: la sensazione di panico, le scadenze, la rabbia, la precarietà sono stati di cui, nel mondo post-Covid, si parla apertamente anche per i lavori da ufficio. La Great Resignation sembra una soluzione ideale per chi fa parte dello staff di The Bear, ma anche la dipendenza da questa stessa adrenalina che mostrava Kathryn Bigelow in The Hurt Locker. Anche a guardarlo, alla fine, ti senti così: spaventato ed esaltato, in un loop costante.