Cultura | Personaggi

Adam Sandler non vuole essere preso sul serio

Storia di un attore che per tutta la sua carriera ha ignorato le opinioni dei critici e continua a farlo anche ora che questi ultimi, dopo le interpretazioni in Diamanti grezzi e Hustle, cominciano a riconoscerne il talento.

di Francesco Gerardi

Foto di Antony Jones/Getty Images

I critici cinematografici odiano Adam Sandler, e Adam Sandler ricambia. Va così dal 1995, anno di uscita di Billy Madison, il suo primo film e il suo primo successo da protagonista. «Se avete mai provato il desiderio di rivivere la terza elementare, questo film è la cosa che più si avvicina alla realizzazione di detto desiderio», scrisse Janet Maslin del New York Times in quella che alla fine sarà una delle recensioni più benevole del film. Roger Ebert disse che la presenza scenica di Sandler evocava «il suono delle unghie che strisciano sulla lavagna». Durante la campagna promozionale di Billy Madison, Sandler aveva concesso una delle rarissime interviste “vere e proprie” (le chiacchierate tra amici nei vari late night non contano) della sua carriera: un magazine gliel’aveva chiesta per un ritratto e lui aveva accettato, con l’entusiasmo che solo chi sta per arrivare in cima al botteghino americano può avere. Dopo aver letto le recensioni di Billy Madison, Sandler non avrà più alcun rapporto con la stampa per i successivi 37 film e 25 anni. Alla categoria dei giornalisti concederà una seconda possibilità solo nel 2019: è l’anno in cui esce Diamanti grezzi dei fratelli Safdie e Sandler dà a Jamie Lauren Keiles un paio di giorni del suo tempo per permetterle di realizzare uno stupendo ritratto per il New York Times Magazine intitolato “Adam Sandler everlasting schtick”. Sandler a Hollywood conosce tutti – per qualche ragione, non perde occasione per far sapere di aver salvato in rubrica il numero di Al Pacino – e tutta Hollywood conosce lui. Pare sia un uomo leale e, soprattutto, dalla buona memoria: le recensioni di Billy Madison non le ha mai dimenticate. Quell’intervista al Times era in realtà il suo posto in prima fila allo spettacolo della sua stessa redenzione.

Diamanti grezzi è il film con il quale la critica e il pubblico scoprono il talento dell’attore, e tutti si chiedono perché un uomo capace di interpretare Howard Ratner abbia sprecato la sua carriera su Billy Madison e tutti quegli altri man-child. Pare Sandler detesti questa domanda. Una delle cose di cui va più orgoglioso è la sua pigrizia: è troppo pigro per sforzarsi di piacere di più e a più persone. «Sono contento dei film che ho fatto», ripete sempre. In tanti dicono di non capire la comicità di Sandler. In tanti commettono un errore fondamentale: cercano la sua comicità nei suoi film. La prova che Sandler sia un uomo divertente sta invece nella maniera in cui parla dei suoi film al di fuori degli stessi: le sue poche dichiarazioni pubbliche “serie” sono una specie di libricino satirico su Hollywood e l’industria che lo ha reso miliardario. Anche dopo The Meyerowitz Stories, dopo Diamanti grezzi, dopo Hustle (il suo ultimo film, da poco uscito su Netflix e apprezzato come nessun altro della sua carriera sia dalla critica che dal pubblico, stando alle percentuali di freschezza di Rotten Tomatoes), lui continua a dire che il film che gli è riuscito meglio è Big Daddy – Un papà speciale. Perché? «Perché ci recita Leslie (Mann, la moglie di Judd Apatow, amico di Sandler da quando avevano entrambi vent’anni, ndr) ed è il primo in cui c’è anche mia moglie». Quando gli chiedono se proprio non ci sia nessun altro titolo tra quelli della sua filmografia che si sentirebbe di consigliare, Sandler risponde «uno di quelli in cui sono più magro. Quando li guardo con mia figlia, a un certo punto abbasso il volume e le dico “Vedi, papà era magro, un tempo”».

Dice di non aver mai letto le recensioni dei suoi film, Sandler. Eppure il suo personaggio pubblico sembra un Frankenstein costruito con i pezzi dei peggiori articoli scritti su di lui negli ultimi trent’anni. Nella sua recensione di Sandy Wexler per il New Yorker, Richard Brody scrisse che Sandler è «un attore di grande talento vittima del suo stesso successo, che lo porta a recitare in commedie smorte dirette da registi di scarsissima ispirazione». Ora che la gente come Brody inizia finalmente a prenderlo sul serio – il critico ha scritto una lusinghiera recensione di Hustle in cui sottolinea il talento di Sandler nell’interpretare personaggi come Stanley Sugarman, scout Nba che sta al pallone da basket come il gioielliere Howard Ratner all’opale nero – Sandler continua ad andarsene in giro a ripetere che secondo lui la sua migliore interpretazione l’ha fatta in Funny People. Avrebbe meritato l’Oscar, dice, prima di ribadire che lui all’Academy in realtà «non è che ci pensi» ma che vincere una statuetta per un film così e una parte come quella «sarebbe stato uno spasso». Adesso che gli parlano seriamente di nomination, Sandler non perde occasione per ricordare che non è che abbia scelto di diventare un attore drammatico. Stando a quanto dice lui, le parti da accettare alla fine le decide un po’ a caso: Mr Cobbler e la bottega magica, per esempio, decise di farlo mentre era fermo a letto a causa di una spalla malconcia. «Ero strafatto di antidolorifici e la storia mi piacque tantissimo». E poi, dice Sandler, l’Academy non può pensare di candidare uno i cui riferimenti attoriali sono Derek and Clive e, soprattutto, Benny Hill. Ci sarebbe anche Dan Aykroyd, in realtà, ma il licenziamento dal Saturday Night Live del 1995 brucia ancora e di quegli anni non parla volentieri, nemmeno quando si tratta dell’uomo che considera il suo mentore.

C’è chi dice che Sandler abbia fatto la carriera che ha fatto perché è più businessman che attore. Ha scelto i suoi film sapendo che i soldi si fanno con le cose che le persone guardano «quando tornano stanche da lavoro o quando sono strafatte o quando hanno tredici anni». Questa lezione l’avrebbe imparata la prima volta che si è esibito in un comedy club, cosa che accettò di fare solo per tenere contento suo fratello che continuava a ripetergli che il suo futuro era la comicità. Non aveva preparato niente per quell’esordio, nessun monologo, nemmeno una battuta. «Di che parlano gli altri comici?», chiese a suo fratello durante il viaggio in macchina verso il locale. L’esibizione fu un disastro, ma Sandler continuò a tornare in quel comedy club fino a quando non capì dove stava sbagliando: stava cercando di far ridere gente che pensava a come ridere, che distingueva le battute in setup e punchline e basava la risata sul rapporto tra queste due parti. A quel punto decise che il resto della sua carriera l’avrebbe passato a far ridere gente troppo stanca o strafatta o tredicenne per pensare.

Una cosa che non gli piaceva del comedy club era la distribuzione dei guadagni, ragione per la quale fonderà la sua società di produzione non appena ne avrà la possibilità. Nel 1995 Amy Pascal, dirigente Sony, gli offre questa opportunità e lui fonda la Happy Madison Production. L’accordo tra le parti prevede che Sandler guadagni venti milioni di dollari a film oppure una percentuale sugli incassi dei titoli che produrrà. Tra il 1999 e il 2011 solo uno di questi suoi film incassa meno di cento milioni. Con un intuito commerciale paragonabile solo a quello di George Lucas, Sandler è anche uno dei primi a Hollywood a prevedere la trasformazione che le piattaforme di streaming imporranno al cinema inteso come settore industriale. È il primo A-list actor a firmare un accordo con Netflix: 350 milioni di dollari in cambio di quella «comicità infinitamente ripetibile», come la definì il Ceo Ted Sarandos, che così bene si adatta alla consumo in streaming. Anche in questo caso, Sandler trasforma la sua carriera in una battuta. Dell’accordo con Netflix, infatti, non si capisce cosa faccia più ridere: il fatto che lui sia riuscito a vendere due film come Diamanti grezzi e Hustle a gente convinta di comprare «comicità infinitamente ripetibile» o il fatto che di tutti i film fatti per Netflix finora quello andato meglio da un punto di vista numerico sia l’orrendo The Ridiculous Six. Forse, il miglior racconto della sua carriera, della sua comicità, del suo successo l’ha fatto lo stesso Adam Sandler. Qualche anno fa fu invitato a Las Vegas a parlare a un evento al quale partecipavano i proprietari delle più grandi catene cinematografiche d’America. Sandler sale sul palco, si avvicina al microfono e dice: «Mi chiamo Adam Sandler. Non sono un uomo particolarmente talentuoso. Non sono particolarmente bello. Eppure, sono miliardario».