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Licorice Pizza e la beata gioventù di Paul Thomas Anderson

Il nuovo film del regista losangelino (nelle sale dal 17 marzo) è una storia d'amore ma anche un racconto diverso della giovinezza come età delle possibilità e delle libertà.

di Francesco Gerardi

Cooper Hoffman e Alana Haim in una scena di Licorice Pizza

C’è una generazione di registi che sta invecchiando: gli enfant prodige di ieri sono diventati i venerabili maestri di oggi, il tempo scorre in avanti e il loro sguardo si volge all’indietro, al posto delle fragole che ognuno di loro conserva nella memoria. Per Kenneth Branagh è il 1969 in una strada mista, protestante e cattolica, di Belfast. Per Alfonso Cuarón è il biennio 1970-1971 nel quartiere Roma di Città del Messico. Per Paolo Sorrentino sono gli anni Ottanta di Napoli e di Maradona. Quentin Tarantino ha messo suo padre in una scena di C’era una volta a… Hollywood. Per Paul Thomas Anderson l’anno delle meraviglie è il 1973 e il luogo la San Fernando Valley, in California, quando ancora esisteva la catena di negozi di dischi che dà titolo al film: nella distesa di noia ripetitiva alle porte di Los Angeles che gli abitanti chiamano semplicemente “la valle”, era uno dei pochi posti in cui andare quando si aveva voglia di fare qualsiasi cosa. Nel 1973 Anderson aveva appena tre anni e quindi di quell’anno ricorda poco e nulla. Ma in diverse occasioni ha spiegato che per lui lo scorrere del tempo e i cambiamenti nel mondo non vanno di pari passo: l’America degli anni Settanta non è sparita alla fine del decennio, ragione per la quale American Graffiti è ancora oggi un film profondamente, precisamente americano. Influente, anche: il capolavoro di George Lucas è tra le ispirazioni dichiarate per Licorice Pizza. Si vede nella regia, si sente nel sound design, si capisce nel tentativo di imitare i giochi di luce di cui solo Haskell Wexler era capace. E American Graffiti è proprio del 1973.

La voglia di fare qualcosa, qualsiasi cosa, si diceva. Per Anderson è questa la definizione di gioventù, di quel momento dell’esistenza unico e breve in cui le energie sono tali e tante che l’unica cosa da fare è disperderle. Persino sprecarle, come l’altro bene che i giovani possiedono in eccesso: il tempo. I protagonisti di Licorice Pizza sono sia iperattivi che perditempo: buona parte del film la passano a correre, per avvicinarsi, per allontanarsi, per incontrarsi, per separarsi, per perdersi, per ritrovarsi, per tirare dritto, per girare in tondo. Alla fine la storia di Licorice Pizza è la storia di uno di quegli amori che non finiscono, che fanno giri immensi e poi ritornano. Ma in questa storia il giro immenso conta tanto quanto l’amore. Licorice Pizza è un film a malapena narrativo, una successione di episodi, di scene tenute assieme dalla peculiarità di eventi e personaggi. Sean Penn interpreta un calco di William Holden che sfreccia in motocicletta e parla (forse) esclusivamente riciclando battute di film. Tom Waits, la cosa più vicina a un alieno esistente su questa Terra, è protagonista di una scena che è un omaggio all’estetica di Incontri ravvicinati del terzo tipo (film che Anderson ha sempre detto di adorare). Bradley Cooper è Jon Peters, parrucchiere diventato produttore cinematografico grazie a Barbra Streisand, ossessionato dai materassi ad acqua, dalla sua Ferrari Daytona e dal sesso («Sai quanta fica ho io? Ce l’ho tutta, è tutta mia», dice in uno degli scambi più surreali e spassosi del film). John Michael Higgins è Jerry Frick, l’imprenditore losangelino che portò la cucina giapponese nella valle e che quando si rivolge alla moglie giapponese parla il Janglish più offensivo che ci sia. Benny Safdie è Joel Wachs quando quest’ultimo era ancora un closeted gay man alla ricerca di un posto al sole nella politica losangelina. Tutto questo cast – formidabile, memorabile – di personaggi secondari serve a segnare le tappe, a disegnare la mappa della storia d’amore tra i protagonisti del film, Gary Valentine e Alana Kane.

Il quindicenne Gary (interpretato da Cooper Hoffman, il figlio maggiore di Philip Seymour Hoffman, al suo esordio) è il filo nascosto che tiene legato questo film così strano e diverso − nonostante alcuni lo abbiano definito il sequel spirituale di Ubriaco d’amore − dal resto della cinematografia di Anderson.  Gary è immerso nella hustle culture, quella spinta ad agire difficilmente comprensibile oltre i confini americani, che è una delle fondamentali ossessioni del regista: muoveva Daniel Plainview Il petroliere, e negli anni Quaranta spingeva Lancaster Dodd a diventare The master, e alla fine degli anni Settanta convinceva Eddie Adams a unirsi alle Boogie Nights (ambientato nella stessa San Fernando Valley, così come Magnolia). Bambino enorme o piccolo adulto, Gary, pur di non stare con le mani in mano, si dedica a tutte le cose che gli succedono attorno: il boom dei materassi ad acqua e la legalizzazione del flipper nello Stato della California, le mode effimere che sono sempre la sostanza dei ricordi di gioventù. Deve tenersi impegnato, perché se non lo fa, passa il tempo a fantasticare su Alana, la ragazza di venticinque anni che già in apertura di film dichiara di voler sposare. Lei, però, non ne vuole sapere perché lui è pur sempre un ragazzino. Alana è interpretata da Alana Haim. Proprio come Hoffman, Haim non ha mai recitato prima d’ora, ma è la voce e la chitarra, all’occorrenza tastierista e batterista, della band HAIM (composta da lei e dalle sue sorelle). Anderson l’ha conosciuta così, girando video musicali per la band di quella che ha poi scoperto essere la figlia della sua professoressa di storia dell’arte delle superiori. Gary, invece, è basato su Gary Goetzman, amico di Anderson, fondatore della società di produzione di Tom Hanks e in passato proprietario di un negozio di materassi ad acqua.

Il fatto di lavorare con due figli di amici ha probabilmente influenzato la regia del film e il risultato finale: in più di un’intervista Anderson ha detto di essersi spesso “arreso” alle scelte interpretative dei due giovani attori (talenti immensi dotati di quel carisma particolare che si può solo avere alla nascita oppure ottenere in eredità), scelte che compongono la stranezza di un film che alla fine è una commedia romantica e un teen drama ma che è impossibile definire solo una commedia romantica e un teen drama. La spiegazione migliore di questa stranezza la dà forse Paul McCartney in “Let me roll it”, uno dei pezzi centrali della favolosa tracklist che accompagna le vicende amorose di Gary e Alana: «I can’t tell you how I feel/My heart is like a wheel/Let me roll it». Una storia d’amore è una ruota e il racconto di una storia d’amore non può che essere circolare, deve finire e iniziare nello stesso punto.

La definizione più giusta per la storia tra Gary e Alana (e per il film tutto), però, probabilmente è “sfida”, il duetto al quale alla fine si possono ridurre tutti i film di Anderson, anche i più corali come questo. Una sfida per decidere chi tra i due è l’oggetto inamovibile e chi la forza inarrestabile, una sfida che per certi versi ricorda quella tra Reynolds Woodcock e Alma Elson nel Filo nascosto. C’è una scena di Licorice Pizza che spiega il rapporto da alcuni punti di vista morboso che c’è tra Gary e Alana: lui telefona a lei presentandosi con un altro nome, non dice una parola e riattacca. Subito dopo lei telefona a lui, non dice una parola e aspetta che sia lui a cedere, a riappendere la cornetta.

Negli anni che sono passati dal Filo nascosto a Licorice Pizza, però, Anderson si è evidentemente addolcito. Probabilmente c’entrano anche due traumi vissuti uno dopo l’altro: la definitiva uscita di scena di Daniel Day-Lewis proprio dopo Il filo nascosto e la morte di Philip Seymour Hoffman. Forse è per questo che Licorice Pizza non è un altro elogio alla nostalgia ma un racconto – sì romantico, ma onesto – della gioventù come spazio infinito della possibilità, un momento epico ed eroico della vita di ognuno in cui si gode della libertà perfetta che viene dalla consapevolezza di poter aprire un negozio di materassi ad acqua, farlo fallire e avere comunque, ancora, innumerevoli imprese davanti a sé.