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Cambiare parte politica nella vita e nei romanzi
Un redattore di Studio racconta la genesi del suo primo romanzo, La parte sbagliata, mettendola a confronto con altri casi celebri di persone passate dall'estrema destra alla sinistra.
Dopo che ho cambiato idea, per prima cosa, ho cercato gli esempi e le storie di altri che avessero cambiato idea come me. Cambiare idea è un modo soft per dirlo: intendo abbandonare una parte politica – una che sta molto a destra – per catapultarsi, dopo una riflessione molto breve, dalla parte opposta. È un esercizio difficile, ed è quasi impossibile concluderlo senza farsi male. Non tanto per colpa del salto ideologico: quello l’hai studiato bene, magari l’hai immaginato per mesi, se l’hai fatto è perché il momento era quello giusto. Il problema è l’atterraggio: il materasso è instabile e non ti dà sicurezze. Il materasso sono gli occhi che ti guardano e le parole che si usano in questi casi per giudicarti, dalla parte che lasci e dalla parte in cui vorresti essere accolto. Le parole sono: traditore. Soprattutto: voltagabbana.
In Italia (dico Italia perché è il Paese che conosco meglio, ma ho la sensazione che qui succeda più che altrove) cambiare idea, stavolta in generale, non è facilmente perdonato. Banderuola, ecco un’altra parola. Per questo cercavo esempi di gente che avesse cambiato idea come me: per trovare bastoni a cui appoggiarmi, e anche da mostrare per dire, guardate, se l’ha fatto lui allora lo posso fare anche io. Dario Fo, repubblichino a Salò a 17 anni, e poi campione dell’antifascismo; Curzio Malaparte, camicia nera durante la Marcia su Roma, successivamente arrestato e spedito al confino, infine ufficiale al fianco degli Alleati che risalivano l’Italia nel 1944; Elio Vittorini, fascista “di sinistra” prima di diventare partigiano; Giorgio Albertazzi, repubblichino pure lui «per il piacere dell’avventura», che pure controverso rimarrà per sempre. Renato Curcio, tra i fondatori delle Brigate Rosse, ma prima militante nella Giovane Europa di Jean Thiriart!
Del senso di colpa per questo cambio di casacca non ci si libera facilmente. Io, che da ragazzino minorenne ho passato alcuni anni dalla parte sbagliata, con l’incoscienza di chi di politica non ne sapeva quasi niente, e con la sfacciataggine e la scemenza che si possono avere a quindici, sedici anni, ci ho pensato così tanto che vent’anni dopo ne è uscito un libro: si chiama, appunto, La parte sbagliata, esce il 2 maggio per le Edizioni E/O. È un romanzo di finzione, ma in parte è un tentativo di elaborare quel passato. Il protagonista, che si chiama Ettore e ha 15 anni, si ritrova a frequentare un gruppo neofascista (non reale: non ci troverete nessun riferimento ammiccante all’attualità) per trovare il cosiddetto suo posto nel mondo, in cerca di amicizie e di una comunità: solo dopo si costruirà una propria ideologia, che spingerà fino alle conseguenze estreme.
Da ragazzino ho scelto la strada sbagliata un po’ come Albertazzi scelse quella della Repubblica sociale, per ribellismo e anticonformismo, e perché mi era sembrato, in quella minoranza e in quel vittimismo, di poter trovare una casa e un’identità che cercavo disperatamente, in anni così confusi. A differenza di Albertazzi la mia fascinazione adolescenziale non è mai stata messa alla prova dei fatti: non ho mai usato violenza, non ho mai partecipato ad azioni eversive. Questo ribellismo aveva, insomma, molto a che fare con l’estetica, con il posizionamento idiosincratico, e poco con la volontà di potenza. Anche per Ettore, il protagonista del mio romanzo e – penso – per migliaia di ragazzi, il primigenio fascino di questa parte politica nasce così: è pre-ideologico. È una questione privata, per citare Fenoglio. Ma lui parlava dello scegliere la parte giusta: e allora volevo mostrare come, in casi singoli (per non fare di tutta l’erba un… esatto) il teorema funzioni anche al contrario.
Dopo qualche anno, a differenza del protagonista del romanzo, io me ne sono andato: ho cambiato idea. Perché? Questa è la risposta più difficile. Azzardo con la memoria: perché mi accorgevo che non ci credevo più, e perché quella fatica di sentirsi in una lotta costante contro tutto mi aveva appesantito, e non la volevo più fare. Perché ho letto altri libri e ho sentito di voler appartenere a un’altra storia, fatta di fratellanza e internazionalismo. Perché mi accorgevo che quelle singole storie che mi avevano coinvolto non appartenevano davvero a quel contesto ideologico: era un sillogismo disonesto. Perché ho intuito l’odio e l’orrore in fondo alla strada, la vera natura di quel percorso: «Un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista», come ha scritto Antonio Scurati in quel monologo per il 25 aprile. Ma anche – soprattutto – perché intorno a me erano rimaste decine di conoscenti e amici della “parte giusta” che non mi vedevano come uno da salvare, ma a cui semmai far cambiare idea. Senza tentativi come la Cura Ludovico di Arancia Meccanica, senza catechismo tipo gesuiti nelle colonie spagnole, ma con cose più piccole come la presenza e l’amicizia.
Ho scoperto, nei giorni in cui le prime copie mi arrivavano in mano, che è in questi giorni in libreria un altro libro che compie un’operazione simile: si chiama Dalla stessa parte mi troverai, l’ha scritto Valentina Mira e l’ha pubblicato SEM. È stato scelto nella dozzina del Premio Strega, ha sollevato un bel po’ di polemiche e mi ha fatto pensare.
Principalmente, le polemiche nascono dal fatto che anche Mira è stata di destra. Quando dico “di destra” non intendo un generico conservatorismo liberale, ma un’ammirazione pur adolescenziale e ingenua per certe estetiche o parole d’ordine tipiche del neofascismo. Sono polemiche di due tipi. Una è legittima, e dice che la scrittrice tratta con poca empatia una storia tragica: quella chiamata “strage di Acca Larenzia”, l’omicidio di due ragazzi poco più che diciottenni, nel 1978, fuori dalla sede del MSI nell’omonima via, a Roma. L’attentato venne poi rivendicato dai Nuclei armati per il contropotere territoriale. Ne parla, in un bel pezzo di critica uscito su Esquire, Ivan Carozzi, che scrive: «Mira dedica all’episodio una mezza pagina. Liquida un avvenimento e un intero periodo storico con un giro di parole davvero troppo schematico e sbrigativo». Le altre polemiche, meno ricostruibili perché nate e cresciute sui social network, riguardano il presunto tradimento di Mira. Aver cambiato casacca, appunto.
Mira, nella sua “altra vita”, ha scritto una serie di articoli per un giornale sovranista. Quando ne parla dice: «Me ne vergogno così tanto che non li ho mai più riletti, non ci riesco». La vergogna, oltre il senso di colpa, è il sentimento più forte che provi dopo che “cambi idea”.
Di recente ho dato un’intervista a proposito del mio libro. Una delle domande mi ha preso alla sprovvista, e ingenuo come sono non mi ero preparato un canovaccio di risposte per le questioni più scivolose. Mi si chiedeva cosa potrei dire, oggi, a un ragazzino come questo mio personaggio, per “salvarlo”. Ho risposto male, credo, parlando generalmente di cultura. La verità è che non lo so. Solo dopo, pedalando verso casa, ho pensato a una canzone dei C.S.I. che si chiama “A tratti”, in cui Giovanni Lindo Ferretti dice: «Se divento un megafono, m’incepperò / Cosa fare, non fare, non lo so / Quando, dove, perché, riguarda solo me». Ecco quello che vorrei dire. Aggiungendo, però, una cosa fondamentale: che “salvarsi” è una parola da lasciare alle religioni, perché contiene, implicitamente, l’eternità della condanna per i non salvati. Anche Mira la usa, dice che il motivo per cui scrive è per «tentare di dare strumenti per salvarsi alle altre “te” che ci stanno in giro per il mondo». Penso che sia giusto parlare più semplicemente di cambiare idea, invece: che una cosa umana, molto più umana, e accessibile, e disponibile per tutti.
Qualche tempo fa ho letto di cosa fa la nicotina e la dipendenza da sigarette al cervello di un fumatore: lo riprogramma, lo modifica per sempre nelle sinapsi. Il cervello di un ex fumatore, anche se ha smesso da 30, 40 anni, non tornerà più quello che era prima delle sigarette. Sarà sempre un fumatore in pausa, in pericolo, e la dipendenza starà lì, a palpitare da qualche parte. In un certo senso, è la stessa cosa che succede a uno che è passato dalla parte sbagliata. La presenza costante del ricordo di quegli anni, la domanda che ci si pone in continuazione: ma io sono davvero, potenzialmente, così? Nonostante tutte le manifestazioni fatte poi dalla parte giusta, per anni, per decenni, e i cortei, le proteste, le commemorazioni, le manganellate prese poi? Quando voglio assolvermi da questo continuo senso di colpa, scaccio tutte le vergogne con un’affermazione di libertà: ma allora io sono il più antifascista di tutti, perché scelgo di esserlo ogni santo giorno. È un po’ quello che ha detto Valentina Mira in un’intervista al Manifesto: «Quando parlo della pericolosità del fascismo lo faccio perché so. Non è un antifascismo di posizionamento, il mio. È frutto di un vero percorso di liberazione». Riecheggia, questa parola, in un’altra frase che sto rileggendo molto in questi giorni. Si trova in una vecchia edizione del romanzo L’antagonista di Carlo Cassola, è una dichiarazione dello scrittore romano per i suoi critici, e che vorrei tanto usare come biglietto da visita: «Quei personaggi non sono me ma il contrario di me. Me ne sono finalmente liberato: scrivere questo romanzo ha avuto per me l’effetto di una cura liberatoria».
E in fondo il senso più profondo di ogni democrazia, la speranza che abbiamo di salvare – stavolta sì – questo Paese dallo sprofondamento illiberale in cui altri Stati europei già versano, sta proprio in questo principio: dobbiamo sperare di far cambiare idea a migliaia di persone. È più facile che salvarle, a vederla così: c’è da preparare molta pazienza, saper alternare la severità al perdono, e poi un sacco di casacche nuove da cambiare, certamente una lista di doveri e nessuna lettera scarlatta.