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Blonde, il lato horror di Marilyn Monroe

Il film di Andrew Dominik ispirato al libro di Joyce Carol Oates è un lungo incubo che non racconta quasi niente di reale della vita della star, ma sceglie di esplorare le sue emozioni più oscure.

di Clara Mazzoleni

Trasmesso da Mtv nel 2005, il video di “Lyla” iniziava in bianco e nero. In un appartamento, un cane ringhiava mentre due ragazzi maltrattavano una ragazza. Lei si incazzava, prendeva qualcosa dall’armadietto del bagno e poi scappava. Il video diventava improvvisamente a colori, e la ragazza si trovava in un posto nuovo: era bellissima, aveva una coroncina in testa e ballava in mezzo alla folla mentre gli Oasis suonavano sul palco. Sembrava divertirsi, ma a un certo punto le facce delle persone intorno a lei si deformavano e diventavano mostruose. La ragazza scappava terrorizzata e riusciva a tornare nella sua stanza: il mondo tornava in bianco e nero. Guardava fuori dalla finestra e vedeva una scritta luminosa “Don’t Believe The Truth”. Mi è tornato in mente questo video durante una scena di Blonde, che allo stesso modo alterna bianco e nero e colori. Il regista indugia sui volti deformati dei fan e dei paparazzi accalcati lungo il red carpet al passaggio di Marilyn Monroe: con un effetto forse poco originale ma efficace, li rallenta e deforma le loro bocche urlanti, rendendole enormi. Nel film di Andrew Dominik tutti gli uomini sono dei mostri: schifoso è il loro sguardo sulle donne, schifoso è il loro essere bigotti o intellettualmente snob, schifosi sono i loro istinti, il sadismo, l’egoismo. Il problema è che il loro sguardo sadico, bigotto e presuntuoso sembra fondersi troppo spesso con quello del regista.

Al primo posto, nella lista delle cose che non vanno, ci sono ovviamente i feti parlanti a tutto schermo, bambini mai nati che incolpano mamma Norma Jean di averli abortiti. Poi i punti di vista “particolari”: vada la scelta di posizionarci letteralmente dentro al cesso, mentre una Marilyn piena di psicofarmaci e alcol ci vomita addosso; passi anche il primissimo pianto durante il pompino a Kennedy (ci troviamo a pochi centimetri di distanza), effetti perlomeno giustificati dall’intenzione di coinvolgerci il più possibile, ma non si capisce perché per ben due volte, noi che guardiamo il film, ci troviamo all’interno della vagina dell’attrice, che il ginecologo apre con uno speculum. Cosa vuole suggerirci, che siamo dentro al suo corpo? Forse. Perché per la maggior parte del film Marilyn è nuda, annegata, tremolante, pestata, spostata, inciampata, trasportata, vestita, svestita, truccata, fotografata, stuprata, sanguinante e infine (ed è quasi un sollievo) immobile, morta. Oltre a essere totalmente frutto della fantasia di Joyce Carol Oates (il film è tratto dal suo romanzo Blonde, uscito nel 2000), le scene di sesso tra lei e due attori “figli di” conosciuti all’inizio della sua carriera sono le uniche in cui sembra davvero spensierata: peccato che in un effetto speciale che definire cringe è un eufemismo, il suo orgasmo si trasforma nelle cascate nel Niagara, trasportandoci senza soluzione di continuità al film trasmesso nella sala cinematografica.

Blonde è stato recensito negativamente quasi ovunque: tra i tanti articoli usciti sul film c’è la spietata stroncatura del New York Times, lo spiegone di Elle che elenca tutte le cose non vere (di nuovo, il film non è un biopic, è tratto dal romanzo di Oates, che infatti è più volte intervenuta per sottolinearlo col suo attivissimo account Twitter) e l’articolo di The Cut sulla glamourizzazione della tristezza delle donne, concetto ripreso da Emily Ratajkowski su TikTok, che ancor prima di aver visto il film ha pubblicato un video invitando le donne a smetterla di feticizzare il loro dolore. Su The Cut Elizabeth Nicholas accenna una lista di belle donne tristi e famose, reali e non, citando Elizabeth Taylor, Joan Didion, le vergini suicide, Winona Ryder e Sylvia Plath. Si potrebbe andare avanti all’infinito, attingendo dai sad girl book, e quindi i libri e i tweet di Melissa Broader, Il mio anno di riposo e oblio e tutti i suoi epigoni, poi passare ai film (Gia, Prozac Nation e simili, ma in tantissimi c’è un personaggio così), impacchettare tutto e spedire a Lana Del Rey, senza dimenticare i selfie di Bella Hadid che piange. È l’archetipo di gran parte delle storie con cui siamo cresciute. Una donna giovane, bellissima, ricca, intelligente: ha tutto, eppure soffre. Come cantava Britney Spears in “Lucky“: «She’s so lucky, she’s a star / But she cry, cry, cries in her lonely heart, thinking / If there’s nothing missing in my life / Then why do these tears come at night?». Emrata si scaglia contro una tradizione consolidata da decenni di cinema, musica e letteratura. Perché a noi donne piacciono le storie di donne che soffrono (purché siano donne bellissime, ovviamente)? Perché ci sono sempre piaciute? Perché continuano a piacerci? Su The Cut Nicholas risponde a queste domande con una domanda che però è una risposta: «Il glamour è il contrasto tra ciò che le donne sono più invitate a essere – belle, femminili, sexy – e ciò che per loro è meno consentito essere, cioè insaziabili, arrabbiate, smaniose o malate. Come può la stessa donna soddisfare così perfettamente le pretese del mondo senza piegarsi davanti a quelle stesse pretese?». Forse questa compresenza impossibile funziona come una specie di catarsi, e Marilyn Monroe, al tempo stesso la donna più amata e più abusata, è il simbolo che la fa scattare.

Sono solo alcuni dei pensieri che, suo malgrado, questo film mette in moto. Forse il merito è dell’interpretazione eccezionale di Ana de Armas, o forse dell’insieme di scene deliranti e artisticamente compiaciute che lo rendono un trip horror. L’ha detto la stessa de Armas: «Il nostro film non è lineare o convenzionale; vuole essere un’esperienza sensoriale, emotiva». Della vita di Marilyn c’è davvero pochissimo. Mancano intere parti: il matrimonio a 16 anni, le amicizie femminili, le iniziative imprenditoriali, alcuni dei suoi film più importanti. Sono tante, invece, le scene in cui Norma Jeane osserva se stessa, o meglio, il personaggio che ha creato: allo specchio, nello schermo. La vediamo più volte mentre, in mezzo alla sala, si guarda recitare nei film, circondata dal pubblico che sorride bonario, mentre lei si osserva disgustata. Norma Jeane odia la donna che l’ha salvata, perché la vede con gli occhi avidi e scemi della massa. È un labirinto di specchi che fa girare la testa, e ci siamo anche noi. Perché noi, pubblico, la guardiamo mentre si guarda e guardiamo il pubblico guardare lei. E nonostante, forse, nelle intenzioni del regista, saremmo dovuti essere lei (addirittura dentro al suo corpo, o almeno provando le sue stesse emozioni), più spesso siamo e ci confermiamo la massa. Guardiamo il film, ne parliamo per un po’, polemizzando, così come abbiamo polemizzato sulla scena di Bella Hadid seminuda coperta di tessuto spray da due uomini che le girano intorno. Poi passiamo alla prossima polemica, avidi di intrattenimento. Ma quello che rimane addosso, oltre alla sensazione inedita di aver quasi toccato il corpo di questa Marilyn, mai così calda e viva e fragile e vicina, è un’angoscia strana, un senso di nausea e sconforto, che forse ricorda lontanamente quello che provava lei nei momenti peggiori, e che forse proverebbe ancora, guardando questo film.