Attualità

L’abdicazione di Alex

Ritratto di Ferguson, l'uomo che ha cambiato il Manchester e il calcio mondiale, lo scozzese operaio e socialista diventato baronetto del pallone.

di Stefano Ciavatta

Sir Alex Ferguson lascia il suo Manchester United, che allenava dal novembre del 1986. La notizia è certa e già celebrata ma non è nuova, perché le dimissioni erano state già annunciate nella stagione 2001/02 salvo poi ripensarci e annunciate di nuovo poco tempo fa al venticinquesimo anno alla guida del Manchester, «sono arrivato ai rigori della mia carriera, ma è durissima scendere dal treno”». L’ansia per il suo ritiro in Inghilterra è sempre stata relativa. Resta imbattuto il record di Guy Roux che allenò l’Auxerre dal 1961 al 2005, raggiunto invece da Ferguson quello dei 26 anni di David Calderhead, al Chelsea tra il 1907 e il 1933. In ogni caso una eternità, “sky’s the limit” recitava un slogan dei tifosi e sotto il cielo di Ferguson, dal suo debutto sulla panchina del Manchester, si sono alternati nel campionato inglese 1200 colleghi.

«Non sono un ragazzo della periferia di Glasgow che si ritrova sulla Quinta Strada a New York: ormai non mi impressiona più nulla».

“Lasciare” a 72 anni è già un verbo che in Italia farebbe notizia non essendo molto declinato: quando mai Franco Carraro o Mario Pescante si dimetteranno dal Coni? (Ferguson è del 1941, Carraro del 1939, Pescante del 1938). Del resto parlava chiaro l’immagine della delegazione di dirigenti italiani che a Londra questa estate sfilavano davanti agli atleti. Un’altra notizia, in tempi di interregni e sedie vuote, di elezioni e volti nuovi, è che Ferguson non è morto: semplicemente dalla prossima stagione non sarà più il football manager dello United. Finisce un’epoca ma senza dramma, i giornali celebrano la gloria di 26 anni di United, zippando in un unico titolo raggiante le attese, i dubbi, le sconfitte, le ricostruzioni, le botte di fortuna che pure ha vissuto Ferguson in panchina. Nella stagione 1989/90 attraversò un lungo periodo di sconfitte, tra cui una pesantissima (per 5-1) proprio contro i rivali del City. I tifosi del Manchester gli dedicarono uno striscione all’Old Trafford: «Tre anni di scuse e di stronzate». Nel 1990 la vittoria della FA Cup gli salvò la panchina. Ha spesso ripetuto: «Non sono un ragazzo della periferia di Glasgow che si ritrova sulla Quinta Strada a New York: ormai non mi impressiona più nulla».

Non è vero che la storia la fanno sempre i vincitori. Come nella Roma imperiale, la storia la fanno spesso i senatori, anzi la rifanno: con indolenza, spietatezza e fatalismo. Oggi che Ferguson abbandona da vincitore lo United i senatori guardano infatti tronfi e sazi la bacheca del club: tredici campionati inglesi compreso l’ultimo, cinque Coppe d’Inghilterra, quattro Coppe di Lega, dieci Community Shield, due Champions League, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Uefa, una Coppa Intercontinentale e una Coppa del mondo per club. È una storia felice e dorata, che riassunta in un titolo di giornale non ammette “se”.

Ma prima di questo Manchester popolare e vincente per tre generazioni di pubblico (chi ha visto Cantona, chi Beckham, chi Rooney), prima di questo club ormai “scaraventato nel futuro” i senatori osservavano stanchi una storia depressa, che durava da oltre 15 anni, fatta di puro anonimato, stagioni mediocri e persino retrocessioni. La guardavano alimentandone il languore, soccombendo ai successi del Liverpool il grande rivale che “doveva essere buttata giù dal trespolo” e che con Bob Paisley in panchina aveva vinto tre coppe dei Campioni. Non a caso il primato di Ferguson apparteneva in precedenza a Matt Busby, manager della prima Coppa Campioni dei Red Devils vinta nel 1968 e scomparso nel 1994. In mezzo, tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli ’80 c’è il vuoto: quando Ferguson firmava il contratto con lo United l’ultimo scudetto del club risaliva al 1967.

Nel 1945 lo United militava in seconda divisione e lottava per non retrocedere, era praticamente senza fondi. Fu un manager scozzese dalla faccia dura, Matt Busby, a voler puntare sui giovani.

È il vuoto che sta dietro la leggenda delle 758 partite e 249 gol di Bobby Charlton, e quello che sta dietro la figura pazza e scellerata di George Best. Il blasone del dopoguerra e la Coppa Campioni del 1968 erano diventate medaglie di sughero. E nella mediocrità diventava una prigione pure il ricordo della Superga inglese di Monaco, la tragedia aerea del 1958 di cui Charlton era stato uno dei pochi sopravvissuti. L’allenatore, il preparatore, il segretario e sette giocatori morirono sul colpo, un altro giorni dopo. Il Manchester era stata la più giovane squadra inglese a vincere il campionato. Oggi il Manchester è il terzo club al mondo per ricavi e il primo in Inghilterra con 286,4 milioni di sterline, anche i debiti sono in proporzione. I tempi dei pionieri in cui lo United era costretto a pagare l’affitto al City per giocare nel suo stadio sono lontani. La città operaia dalle case rosse per i mattoni e i cortili stretti è cambiata con tutta l’epopea di Ferguson. Nel 1945 lo United militava in seconda divisione e lottava per non retrocedere, era praticamente senza fondi. Fu un manager scozzese dalla faccia dura, Matt Busby, a voler puntare sui giovani. Nel 1948 arrivò la Coppa d’Inghilterra. Poi tre titoli che mancavano da 40 anni (1952, 1956 e 1957). Poi i “Busby Babes” morirono a Monaco (la tragedia è rievocata nel recente film della BBC United, paradossalmente girato da James Strong, tifoso del Tottenham e sceneggiato da Chris Chibnall, tifoso del West Ham, tanto forte è la potenza del mito di quel Manchester). La città sostenne il club con delle collette, venne rifondato da Busby intorno a Charlton e nel 1968 arrivò la consacrazione europa contro il Benfica.

È stato Ferguson, un altro scozzese traghettatore dopo Busby, a togliere di mano i santini di Best e Charlton agli scettici (sulle sorti future della squadra) e invidiosi (del Liverpool per volgare ripicca) senatori della storia del Manchester: «Quando arrivai allo United, questo club aveva già una gloriosa tradizione alle spalle. Mi misi a leggere un mucchio di libri sui Red Devils e familiarizzai con la loro bellissima storia. Ma poi smisi del tutto. Compresi che così facendo, invece di concentrarmi sul futuro, come avrei dovuto fare, stavo perdendo troppo tempo a pensare al passato». E comunque, quando nel 1999 il Manchester di Ferguson recuperò al 90° due gol al Bayern Monaco in finale di Champions, c’è chi pensò a una coincidenza: quella sera era il compleanno di Busby, scomparso cinque anni prima. Forse il vecchio mastino scozzese vegliava ancora sui suoi “Busby boys”.

Di sicuro Ferguson ne ha ripetuto lo schema di padre padrone e tiranno riverito, unendo la disponibilità, “il mio ufficio è sempre aperto”, alla disciplina, “my way or the highway”, usando carattere e caratteraccio. Charlton era un leader più timido, Busby più laconico, Ferguson, ex operaio, ex sindacalista, cattolico e socialista dichiarato, figlio di operai del cantiere navale di Govan, il sobborgo più scrauso di Glasgow, non le ha mai mandate a dire. Nelle dispute su come gli egiziani abbiano costruito le piramidi, se grazie alle tecnologie di altre civiltà o con l’aiuto degli alieni, Ferguson è quello che risponderebbe “con la frusta, naturalmente”.

Era padre padrone e tiranno riverito, unendo la disponibilità, “il mio ufficio è sempre aperto”, alla disciplina, “my way or the highway”, usando carattere e caratteraccio.

Quello strano signore che a ogni gol quasi salta per aria uscendo dal suo cappotto, muovendo le braccia verso l’alto in maniera scomposta, agitando i pugni come fosse la prima volta, è lo stesso che dopo una sconfitta per 2-0 contro l’Arsenal in FA Cup nel 2003 tirò uno scarpino in faccia sul viso pulito di David Beckham: «Dovete scusarmi, anche tu David, non l’ho fatto apposta, non volevo colpirti. È stato uno scatto d’ira: sapete, dove sono nato io c’è sempre stata violenza: una volta degli avversari, a cui avevo fatto dei falli in campo, mi hanno seguito fino al pub per riempirmi di botte; un’altra volta sono stato gonfiato per aver difeso un ragazzo che aveva la poliomielite e veniva insultato: era mio cugino». Non a caso lo avevano soprannominato dal 1987 “hairdryer”, asciugacapelli umano, per un dopopartita negli spogliatoi dove aveva urlato in faccia a tutti il suo disappunto per la sconfitta contro il Wimbledon.

Beckham che pure veniva dalle giovanili ed era un pupillo di Ferguson, in quanto londinese scontava un peccato d’origine: «C’è una caratteristica in comune tra Sheringham, Beckham e Paul Ince: tutti e tre sono di Londra e, appunto, un po’ fighetti». A Beckham non risparmiò nemmeno il fatto di aver sposato Victoria, un matrimonio e una nuova vita troppo glamour secondo Ferguson che aveva danneggiato la carriera. Tra i tanti “Fergie Boys” il suo fedelissimo è stato Giggs: lo andò a prendere di persona a casa, quando Giggs aveva solo 14 anni, oggi è il primatista di presenze dello United. Eric Cantona è stato il primo capitano del Manchester di nazionalità straniera, il primo vero fenomeno dell’epopea dello scozzese. Con due ventitreenni in attacco, Ronaldo e Rooney, ha vinto una Champions e ne ha persa un’altra contro il Barcellona di Messi e Guardiola.

Di quando non era ancora stato nominato dalla regina Elisabetta Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico (1999), e di quando aveva guidato la squadra scozzese dell’Aberdeen (lo soprannominarono “Furious Fergie” per aver lanciato più di una volta il bollitore del tè contro il muro dello spogliatoio solo perché il primo tempo non lo aveva soddisfatto ) alla vittoria della Coppa delle Coppe (1983), la Supercoppa (1983), tre titoli di Premier League e quattro Coppe di Scozia, ma soprattutto di quando Ferguson tornava a casa per affiancare il padre negli scioperi, della sua lunga adolescenza tra calcio, alcol e politica, ne ha scritto Beppe di Corrado sul Foglio in un lungo ritratto.

 

 

Foto: Allsport  UK/Allsport