Attualità

La sofferenza di Baggio

Una giornata con Roberto Baggio, a guardarlo mentre si allena, mentre gioca una partita amichevole, tira punizioni. E poi le sue ginocchia, libri di storia del calcio su sofferenza e trionfi. Storia di dedizione, cadute e rinascite.

di Giorgio Burreddu

È la sofferenza che conduce alla pace, l’ho capito guardando Roberto Baggio. Sono due mesi che si sta allenando. Due, anche tre volte a settimana. Lo ha fatto a Bologna, e io un paio di volte a vederlo ci sono andato. Voleva essere pronto per la partita di lunedì 1 settembre, quella dell’Olimpico che vale tantissimo perché è una partita in nome della Pace. La convocazione gli è arrivata dal Papa, e allora Baggio l’ha preparata come si prepara una finale, o una cosa del genere. Ma non è affatto questa la cosa più assurda. Dieci anni. Per noi che siamo abituati a voltarci indietro e a guardare quanta strada abbiamo fatto, a come siamo invecchiati, a sfiorarci la ruga che ci è spuntata all’angolo dell’occhio, e a pensare a come portavamo i capelli quell’estate guardando una fotografia, dieci anni sono un tempo lunghissimo. Per Baggio, invece, il tempo è codardo. È ancora l’idolo di molti di noi, di quelli che lo hanno visto giocare, sì, ma anche dei ragazzi nati appena più in là del suo ritiro e che la leggenda del Divin Codino se la sono sentita raccontare da YouTube. Baggio è ancora di tutti quelli che stanno dall’altra parte del mondo, o lontano da qui, in Giappone come in Canada, e che continuano a credere che siamo la solita nazione di eroi. Dieci anni, eppure sono dieci anni che Roberto Baggio non tocca un pallone. Non lo aveva fatto più, mai, nemmeno una sera a calcetto con gli amici. Era così difficile immaginarselo in qualche angusto spogliatoio, con le panchine di legno smangiato e il boiler dell’acqua calda che si blocca di colpo dopo una partitella finita con chissà quanti gol. Quando giocava speravamo non invecchiasse mai, ad alcuni uomini certe cose non dovrebbero accadere. E invece quando sbuca da dietro l’angolo, Baggio è davvero un ex. Ha il pizzetto e i capelli di un grigio strano, una tonalità talmente sfumata che sembra fatta da un ritrattista col carboncino. Gli occhi gli brillano come due spilli al sole. Ma sono le sue ginocchia che mi fanno comprendere il significato di un certo tipo di sofferenza, quella racchiusa in una vita tormentata.

Aveva diciassette anni quando si spaccò il ginocchio destro. Giocava a Vicenza, di lì a due giorni avrebbe firmato con la Fiorentina.

A bordocampo c’è Antonio, che è anche il massaggiatore di Baggio ogni volta che viene a Bologna. Invece delle casacche se ne occupa Claudio. Roberto finisce di là insieme a quelli con la pettorina, ma non importa chi gioca con chi, e si comincia. Ci sono un paio di ex calciatori. Uno è Spagnoli, che una volta faceva la popstar di Campioni, oggi fa il presidente dell’Imolese e ha i capelli tagliati corti. L’altro è Baiesi. Adesso fa il direttore sportivo, ma quando Baggio giocava in Serie C con il Vicenza lui era una promessa della Spal. Si erano incontrati in campionato, era finita pari. Poi non si erano più visti. Claudio fa le presentazioni, e ci vuole un attimo perché venga in mente a tutti e due quella sfida di ragazzi. I calciatori hanno sempre una memoria prodigiosa. Gli altri giocatori sono perlopiù ragazzi e ragazze che fanno sport e qui ci sono venuti per guarire degli infortuni. Guai muscolari, o anche peggio. E poi c’è Daniela. Quando Baggio si era curato qui la prima volta nel 2002, era stato Claudio, che coordina tutto il lavoro sui campi, ad avere l’intuizione. Aveva scelto una donna, prima di tutto per spezzare la monotonia e l’idea di un calcio machista, e poi perché Daniela è una che non molla mai, e allora Claudio aveva pensato: “Vediamo chi la spunta tra i due”. Era l’anno dei Mondiali. Baggio era già a Brescia e si era rotto il crociato in una partita contro il Parma. L’avevano dovuto operare di corsa, ma nessuno pensava sarebbe stato capace di rimettersi in sesto tanto presto. Si allenava tre ore al mattino e tre al pomeriggio. Non pensava ad altro, solo al ginocchio. Alla fine erano passati settantasei giorni esatti, e quella volta i giornali scrissero che si era trattato di un vero miracolo. In effetti, al rientro, il miracolo Baggio lo fece: contro la Fiorentina segnò due gol. Era l’anno in cui la Fifa aveva allargato la lista dei giocatori che si potevano convocare; da ventidue a ventitré, allargarono. E come sempre l’Italia aveva lasciato un posticino per Baggio. Per lui c’era sempre, credevamo. Anche acciaccato, anche a trentacinque anni, ma nonostante avesse fatto vedere di essere in forma, alla fine Trapattoni l’aveva lasciato a casa e si era portato Del Piero. Dopo ci sono voluti altri due anni, prima che Baggio smettesse di giocare a pallone per sempre.

A quell’epoca la sofferenza di Baggio era già di dominio pubblico. Troppo breve era stata la dimensione privata del dolore. Aveva diciassette anni quando si spaccò il ginocchio destro. Giocava a Vicenza, di lì a due giorni avrebbe firmato con la Fiorentina. Ché poi a Firenze ci andò lo stesso, per fortuna, perché è da lì che prenderà forma la leggenda di Roberto Baggio e del suo codino svolazzante. Ma quell’esperienza segnerà per sempre anche l’idea che Baggio ha della vita. Diventando buddista, e mica solo quello. Nelle esperienze laceranti si forgia il carattere. E infatti sono state la tenacia, la volontà, la caparbietà, tutte cose che ne hanno illuminato il talento e offuscato l’incubo di gettare la spugna. Tutto questo, che vale anche oggi, oggi che Baggio ha 47 anni ma che il pallone lo sa toccare come quando ne aveva venti. Glielo vedo sfiorare di prima, leggero, di destro, sinistro, una palla filtrante. Baggio c’è. Quando Javier Zanetti gli aveva telefonato per convincerlo a prendere parte all’evento di lunedì era maggio, e Roberto era molto lontano dall’essere in forma. Allora ha preso la macchina, due ore per venire qui e due per tornare a casa, un’ora di allenamento, giugno, luglio e agosto, e guai a mollare un dito. Io la prima volta l’ho visto un mese fa. Avevo provato a chiedergli un’intervista, ma ormai le rilascia soltanto in casi davvero eccezionali. Era arrivato coi finestrini abbassati, Bruce Springsteen a tutto volume. Dancing in the dark, danzando nel buio. Poi era venuta giù un’acqua che ho pensato chi me l’ha fatto fare. Ma il peggio era stato quando l’avevo visto uscire dal campo toccandosi la coscia: erano passati giusto cinque minuti, e l’allenamento si era concluso lì.

Ancora, a distanza di tanti anni, sa catturare gli occhi dei curiosi, della gente. Tutti da lui si aspettano un colpo fuori dal comune.

Baggio non è più un (ex) campione. È un’aura, la cosmogonia dell’incredibile. Ancora, a distanza di tanti anni, sa catturare gli occhi dei curiosi, della gente. Tutti da lui si aspettano un colpo fuori dal comune. In panchina con me c’è Filippo, che ha trentaquattro anni e fa il responsabile del settore giovanile dell’Imolese. Quando capisce che sono lì per Baggio congiunge la mani sulla punta delle labbra, si piega in avanti, i gomiti sulle ginocchia e inizia a fissare un punto nel vuoto, forse un’immagine del suo passato. Poi dice: «Siamo qui per lo stesso motivo. Dal vivo Baggio l’ho visto due volte in tutta la vita, ma sempre con centinaia di persone attorno». Quando ha saputo di questa partitella, e che anche il suo giovane presidente ci andava, ha mollato tutto ed è venuto di corsa. Mi spiega che oggi i settori giovanili sono molto organizzati, a livello tattico i ragazzi sono perfetti. «Manca il cortile, manca la strada». Sembra che voglia dire manca la fantasia. Intanto sul campo c’è una punizione da posizione interessante. Il campo non è perfetto, si vede che c’è qualche buca, ci si arrangia. Ovviamente la tira Baggio. Finirà fuori, ma l’attimo della preparazione è solenne. In campo tutti attendono di vedere quel trucco da prestigiatore: la palla accarezzata, la traiettoria impossibile, la rete che si gonfia. Claudio dice che una volta aveva scommesso cinquanta euro. «La traversa da centrocampo non la prendi più, Roberto» gli diceva. Allora Baggio si era fatto dare un pallone, e dopo erano andati a mangiare un sacco di pasticcini. Tutti offerti da Claudio. Ma Roberto non è uno sbruffone.

Qualche giorno fa, in un altro allenamento, un ragazzo, Marco, stava lì a calciare le punizioni. Baggio gli è andato vicino, gli ha detto come mettere il piede, dove guardare. Così, per migliorare. Perché i segreti del suo talento non se li porterà certo nella tomba. E così quelli della sua sofferenza. Questa cosa me la spiega meglio Lorenzo. Prima di farsi il crociato ed essere operato due volte era in rampa di lancio. L’Ascoli gli voleva dare una possibilità e farlo esordire addirittura in Serie B. Adesso è fermo da quasi un anno. «Prima sei bravo, poi chissà», e sospira. Ha diciannove anni. Mi racconta che durante le sedute in palestra, un paio di volte Baggio gli ha spiegato come si affronta il dolore, che non bisogna mai mollare, che se ci credi non puoi lasciare tutto e cambiare strada. E le stesse cose le ha dette a Pasquale, che di anni invece ne ha ventitré e in un incidente per poco non ci lascia le penne. E lo ha spiegato anche a Simone, a Jacopo, a Giulio, ragazzi che quando giocava Baggio se andava bene stavano dentro a una culla.

Guardo le gambe di Baggio. Sono lucide e forti, piene di magia. Soltanto le ginocchia sono torturate dai bisturi. Osservarle vuole dire cogliere un insegnamento teologico e un’esperienza mistica allo stesso tempo.

Intanto fa sempre più caldo, è quasi mezzogiorno. In panchina si è creata una cappa e si soffoca: io e Filippo facciamo fatica a resistere. Anche se non è vero, mi piace pensare che il termometro segni più o meno la stessa temperatura che c’era a Pasadena, quel pomeriggio del ’94. Ecco, la finale di quella Coppa del Mondo contro il Brasile è diventata l’emblema della sofferenza di Baggio. Una sofferenza collettiva, di tutti noi italiani. Prima fisica, poi spirituale. Baggio la giocò dolorante, stringendo i denti. E di quella giornata si ricordano sempre tutti, ma per lui è stato così anche molte altre volte. Ad alcuni, ancora quando giocava, ha confessato che più passavano gli anni e più il dolore aumentava. Con gli allenatori, però, non si è mai lamentato. Figuriamoci coi giornalisti. Mi raccontano che una volta, contro il Perugia, l’arbitro fischia una punizione a due secondi dall’intervallo. Baggio si era strappato, ma – costi quel che costi – la vuole calciare. Allora si mette lì, le mani sui fianchi, lo sguardo oltre la barriera. E insomma fa gol, dopo è rimasto negli spogliatoi. Certe volte avrà pur ceduto, ma sono state più quelle in cui si è fatto un’alzata di spalle: lui il dolore lo affrontava così, da dentro. Come fa oggi. Fuori sono rimasti i segni. Quando Claudio fischia la fine della partita tutti vengono verso la panchina. Quelli con la pettorina hanno perso di quattro, e qualcuno si lamenta per un fallo non fischiato nel momento cruciale. Guardo le gambe di Baggio. Sono lucide e forti, piene di magia. Soltanto le ginocchia sono torturate dai bisturi. Osservarle vuole dire cogliere un insegnamento teologico e un’esperienza mistica allo stesso tempo. Quelle ginocchia contengono il dolore rimarginato in una cicatrice. Due, tre. Quattro addirittura, e chissà quante altre. Nel tempo Baggio è diventato molte metafore. Ci sono quelle del suo ruolo, quelle sulla libertà, sulla pacatezza. Ma sono le sue ginocchia la prova di quanto sia crudele la strada che conduce alla pace. Perché le guerre creano dolore, distruggono, e bombardano le possibilità. Di vivere. Di giocare. Ma anche le guerre prima o poi finiscono, e dopo ogni cosa si rimargina. A suo modo, lentamente. Come le ginocchia di Baggio. Uno che a quasi cinquant’anni non molla mai, ce la mette tutta e gli riesce ancora molto bene. Uno che ci mette tutta la buona volontà. Dicono che sono gli uomini così a essere in pace col mondo.

 

Fotografie di Gianni Schicchi