Cultura | Scuola

Com’è difficile raccontare la scuola

Sono diversi i romanzi che hanno fallito, La materia alternativa di Laura Marzi è invece un tentativo interessante.

di Gianluca Nativo

Foto di Martin Bureau/AFP via Getty Images

Raccontare la scuola è operazione difficile e, forse, sconsigliabile. Soprattutto se a farlo sono i docenti. Una barca nel bosco di Paola Mastrocola, ad esempio, è stato uno dei romanzi che ha messo d’accordo lettori e specialisti su come non va raccontata la scuola. La storia di Gaspare Torrente, figlio di pescatori e talentuoso latinista incompreso in un sistema scolastico gregario che non riesce a premiare il suo genio, è una svalorizzazione qualunquista, da talk show, di un sistema invece complesso che richiede proprio da parte dei docenti uno sguardo se non ottimista almeno collaborativo. In questi giorni Einaudi ripubblica in un’unica edizione tutti i lavori che Domenico Starnone ha dedicato al suo lavoro di insegnate, dai diari di Ex cattedra al testo teatrale Sottobanco. I diari di bordo di un ex professore fanno, dopo trent’anni, ancora sorridere. Chissà cosa avrebbe scritto oggi, dopo le mille riforme e i nuovi protocolli, con la nuova deriva aziendalistica che le scuole sono costrette a perseguire, dove qualsiasi fotografia scattata tra le aule durante uno dei mille progetti viene postata all’istante sui canali social, sito internet, gruppi Whatsapp, in una patetica gara di promozione per assicurarsi un discreto numero di studenti per la formazione delle classi prime. Di sicuro avrebbe dedicato più di qualche capitolo al fenomeno delle prove Invalsi − le prove comuni a livello nazionale che valutano lo stato delle competenze degli alunni di tutte le scuole italiane – l’isteria dei colleghi alle prese con connessioni wifi lente, aule computer alimentate con cavi non a norma, il disorientamento degli alunni stranieri (Nai, in professorese) obbligati a comprendere un testo di Natalia Ginzburg e a completare attività di lessico in una lingua con cui fanno ancora fatica a comunicare con i compagni.

È raro leggere di scuola, soprattutto per un addetto ai lavori, senza essere travolti da un senso di sfiducia, da un avvilente mancanza di prospettive in un lavoro che a lungo termine, dopo i primi disorientamenti e gli slanci iniziali, come mostra la crisi professionale che vivono i personaggi di Starnone, può diventare ripetitivo, noioso, insofferente. La routine scolastica non è eroica, non è materia per un romanzo. A meno che un alunno durante gli esami di maturità non si presenti con una pistola e faccia una strage di insegnanti, salvandone solo uno, come accade nel Sopravvissuto di Antonio Scurati. Chiunque si ritrovi a varcare la soglia di una scuola in qualità di insegnante di fronte ai turni di vigilanza dell’intervallo, il suono delle campanelle, i campi del registro elettronico da firmare, i consigli di classe da presidiare, centinaia di mani alzate che chiedono l’autorizzazione per andare in bagno non può non pensare alle pagine di Sorvegliare e Punire.

E forse l’unico racconto credibile sulla scuola può modularlo solo chi da quel mondo non è ancora colluso, ma vi partecipa da una prospettiva angolare. Il romanzo di Laura Marzi, La materia alternativa (Mondadori), è la storia di un anno scolastico raccontato da una precaria che ha ottenuto la cattedra più bizzarra: ricoprire le ore di materia alternativa, ovvero seguire gli studenti e le studentesse che non si avvalgono dell’ora di religione. Egiziani, cinesi, filippini, italiani, nuovi inseriti, dsa, dva, bes, vengono tutti scortati in qualsiasi angolo disponibile della scuola per trascorrere un’ora lontani dai docenti di religione (cattolica, perché chi fa alternativa è comunque religioso, solo crede in un Dio diverso). I docenti di alternativa fanno parte a tutti gli effetti dei consigli di classe e sono tenuti a seguire riunioni, presenziare agli esami di Stato, redigere una programmazione, dare una valutazione. Ma a conti fatti il loro parere conta poco ai fini del lavoro d’équipe, e di solito si rintanano in un angolo a contare i minuti che mancano alla fine della riunione e l’inizio della prossima.

Eppure, in quegli spazi orari risicati, la protagonista del romanzo compie una lenta destrutturazione di un sistema che vorrebbe essere inclusivo, orizzontale, al passo con le normative europee, la scuola del curriculo e non del programma, ma fa una gran fatica ad agganciarsi al reale, a una contemporaneità sistemica e complessa, mentre tutto ruota lento, si inceppa, intorno alla burocrazia. Cosa inventare, allora, durante le sue ore, quale alternativa proporre ai suoi studenti? Non lo sa, non lo premedita. In ogni classe in cui entra dà vita a una sottotraccia di dissenso, apre una riflessione non dichiarata in nessun verbale o programmazione in merito al sessismo nella pornografia, mette in discussione le idee dei suoi studenti sull’orientamento sessuale, sul razzismo, sull’identità di genere. «”La volta scorsa hai fatto dei commenti sgradevoli sulle tue compagne e su delle insegnanti, probabilmente li fai anche su di me”. Gli chiedo di alzarsi e di ripetere: “Ciao, mi chiamo Rahman e sono un maschilista”».

La giovane precaria, che vive in un monolocale nella periferia di Roma, sballottata tra un assegno di ricerca all’università e una supplenza nella scuola pubblica, ha ben chiaro dal primo momento che la sua e quella di tutti i docenti, in classe, è una posizione di potere. Con la quale è difficile fare i conti (il confine tra autorità e autorevolezza è molto labile). Nemmeno con l’ironia, come fa il collega di matematica, che associa bonariamente un suo alunno a un chihuahua. «È vero che ha gli occhietti piccoli, chicchi di caffè spaventati, ma quando il mio collega mostra alla classe la foto di un chihuahua, percepisco qualcosa comprimersi in Amal, contrarsi, in reazione al dolore di quell’attacco. Per lui non può essere uno scherzo, visto che è emarginato dalla classe, dalla città, dal mondo. “Chi sono io?” si chiede Amal quando non sa dove mettersi, non riesce a sorridere, a parlare con nessuno. Un chihuahua, a quanto pare».

La pedagogia invita i docenti ad astenersi dal sarcasmo. Pochi mesi fa un’insegnante in un liceo di Roma ha commentato in modo poco lusinghiero l’abbigliamento di una studentessa scatenando una polemica che ha visto una buona parte dell’opinione pubblica schierarsi con l’insegnante, minimizzare l’accaduto e ricordare l’autorevolezza del luogo. Siamo in classe, eccetera. In questi giorni si stanno tenendo le prove concorsuali per la messa in ruolo dei docenti, quiz a risposta multipla sullo scibile umano che decreteranno chi potrà asserragliarsi dietro la cattedra e rimanerci per anni con le conoscenze certificate, sì, ma senza formazione. Tutta colpa del ministero. Al momento non esiste una classe di concorso per la materia alternativa, nessuna selezione all’ingresso. È uno spazio fluido, indeterminato, un piccolo avamposto per la scuola di domani.