Una leggenda metropolitana in voga qualche anno fa voleva che le cene di famiglia in casa Foer, quando i figli erano piccoli, fossero una sorta di sessione d’esame: a Franklin, Jonathan e Josh si chiedeva ogni sera di fare una “presentazione” su un argomento a scelta per imparare ad articolare i pensieri in modo convincente e, aggiungerebbero i maligni, per fare capire agli altri quanto fossero intelligenti. C’è stato un tempo non troppo lontano in cui i tre fratelli Foer erano l’epicentro della scena intellettuale della East Coast. Dieci anni fa questa era la formazione: Franklin, classe ’74, era appena diventato il più giovane direttore nella storia di The New Republic; Jonathan, classe ’77, aveva da poco pubblicato due romanzi considerati tra i casi letterari degli anni Zero; Josh, nato nel 1982, aveva anche lui un libro in via di pubblicazione e pareva avviato al successo. Era una “power triplet”, un sistema compatto e collaudato («Jonathan è il mio protegé, Josh è il protegé di Jonathan», disse una volta Franklin) che sembrava destinato a spaccare il mondo. Erano gli anni della «Foerocrazia», come la battezzò l’Observer.
In una delle sue più celebri serie di racconti, Tevye il lattaio, lo scrittore yiddish Sholem Aleichem metteva in scena la crisi di un padre davanti alla ribellione di tre delle sue figlie e poi la fuga forzata di tutta la famiglia davanti a un pogrom: gli eventi storici con la loro portata distruttiva, in questo caso i massacri degli ebrei russi nel 1880, sono il riflesso di una disgregazione più intima, il collasso dell’ordine famigliare, dei riti e del senso di direzione che essi offrono («Tradizione!», urla Tevye nel vano tentativo d’aggrapparsi ai suoi punti cardine), e tutto questo passa dall’orgoglio ferito del patriarca detronizzato. Foer compie un’operazione assai simile, ma applicata nella Washington contemporanea anziché in uno shtetl della Russia zarista. Anche Eccomi (il titolo è la traduzione dell’ebraico hinneni, la frase con cui Abramo, ovvero il primo patriarca in crisi della storia, risponde a Dio quando questi gli chiede di sacrificare il figlio) parla di un pater familias in difficoltà, di un orgoglio maschile ferito, e incidentalmente anche della distruzione del popolo ebraico, o se non altro di una delle sue incarnazioni geografiche. È, come ha notato Nadia Terranova su IL, «un libro in cui ogni battuta parla di un argomento alludendo a un altro, religione, sesso, identità e amore».
Sensi di colpa genitoriali, erezioni mancate, cosce al principio del disfacimento cellulitico e uno schiacciante senso d’inadeguatezza sono gli ingredienti principali: Giorgio Fontana l’ha definita «una resa iperrealistica dei rapporti umani», Scott una «celebrazione bombastica della piccineria della vita» nonché, soprattutto, «un contributo significativo a una letteratura emergente sulla crisi di mezza età della generazione X». Foer deve ancora compiere quarant’anni. Forse è un autore precoce anche in questo.
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