Attualità

Jonathan e i suoi fratelli

Mentre esce Eccomi, suo nuovo romanzone famigliare, un ritratto di Jonathan Safran Foer e della sua famiglia molto ambiziosa.

di Anna Momigliano

Una leggenda metropolitana in voga qualche anno fa voleva che le cene di famiglia in casa Foer, quando i figli erano piccoli, fossero una sorta di sessione d’esame: a Franklin, Jonathan e Josh si chiedeva ogni sera di fare una “presentazione” su un argomento a scelta per imparare ad articolare i pensieri in modo convincente e, aggiungerebbero i maligni, per fare capire agli altri quanto fossero intelligenti. C’è stato un tempo non troppo lontano in cui i tre fratelli Foer erano l’epicentro della scena intellettuale della East Coast. Dieci anni fa questa era la formazione: Franklin, classe ’74, era appena diventato il più giovane direttore nella storia di The New Republic; Jonathan, classe ’77, aveva da poco pubblicato due romanzi considerati tra i casi letterari degli anni Zero; Josh, nato nel 1982, aveva anche lui un libro in via di pubblicazione e pareva avviato al successo. Era una “power triplet”, un sistema compatto e collaudato («Jonathan è il mio protegé, Josh è il protegé di Jonathan», disse una volta Franklin) che sembrava destinato a spaccare il mondo. Erano gli anni della «Foerocrazia», come la battezzò l’Observer.

Foer-Eccomi-349x540E ora? Franklin è un contributing editor a Slate che, si legge nella sua biografia, «sta scrivendo un libro sul lato oscuro della Silicon Valley»; Josh ha fondato e cura il sito Atlas Obscura, una di quelle piccole perle della Rete assai lette da chi scrive ma praticamente ignorate dal mondo reale; Jonathan ha appena pubblicato il suo terzo romanzo a più di un decennio di distanza dal secondo. Nel frattempo, però, ha continuato a fare parlare di sé: per il saggio Se nulla importa che l’ha trasformato in un’icona vegetariana; per il suo divorzio con Nicole Krauss, autrice di successo pure lei, e il relativo scandalo immobiliare sul loro appartamento di Park Slope (hanno provato a venderlo per 14 milioni di dollari); per lo scambio di email con Natalie Portman; e non ultima per la sua relazione con un’altra attrice di Hollywood, l’ex Dawson Creek Michelle Williams.

A un decennio dalla “Foerocrazia”, il fratello di mezzo è quello che ce l’ha veramente fatta: Jonathan Safran Foer è, come lo descriveva un recente profilo sul Time, l’autore che «un certo segmento del mondo letterario newyorchese ripiegato su se stesso ama odiare; per la sua vita dorata; per quell’aria da bambino prodigio; per l’appartamento di Park Slope; per il suo fraternizzare con le celebrità; per il suo prendersi sul serio». È uno scrittore di successo che presenta, o finge bene di presentare, tutti i sintomi di una crisi di mezza età; il che non è affatto un male, perché da Dostoevskij fino a Judd Apatow, s’è visto che le crisi di mezza età possono essere uno spunto narrativo assai prezioso.

Franklin, Jonathan e Josh sono nati e cresciuti a Washington DC, il padre Albert un avvocato specializzato in antitrust, la madre Esther, immigrata ancora bambina dalla Polonia, professionista delle relazioni pubbliche. È una famiglia “culturalmente ebrea”, ovvero non particolarmente osservante ma pervasa fino al midollo da una Yiddishkeit fatta di curiosità intellettuale, pignoleria, ambizione, motti di spirito e fatalismo, come soltanto alcuni borghesi americani riescono a concentrare (tra gli ebrei europei questa cosa si sta perdendo, e sarebbe una storia lunga). Tutti elementi ricorrenti anche nel suo ultimo romanzo, Eccomi, che esce per Guanda il 29 agosto nella traduzione di Irene Abigail Piccinini, ambientato in una famiglia nevroticamente ebraica di Washington con tre figli maschi.

molto forte incredibilmente vicinoI tre fratelli Foer frequentano le scuole pubbliche fino alle medie, poi un buon liceo privato e università d’élite: Franklin va alla Columbia, Jonathan frequenta Princeton, Joshua Yale. Tutti a un certo punto si trasferiscono a New York. Mentre è al college Jonathan, dopo avere provato con l’astrofisica, frequenta un corso di scrittura creativa. L’insegnante è Joyce Carol Oates, gli dice che è bravo, lui scrive un bel romanzo come tesi di laurea, quel romanzo è Ogni cosa è illuminata, che viene pubblicato nel 2002 (in Italia esce per Guanda), diventa un caso editoriale e poi un film con Elijah Wood: l’autore, che ha appena venticinque anni, è incoronato Wunderkind della letteratura americana. Tra anni dopo segue Molto forte, incredibilmente vicino, che vince premi e diventa anch’esso un film.

Negli undici anni che separano l’uscita del secondo romanzo da quella del terzo, pubblica un saggio di denuncia contro l’industria della carne, Se niente importa (sempre tradotto da Irene Abigail Piccinini per Guanda), proprio mentre lo stile di vita vegetariano sta esplodendo, e ottiene le lodi e l’amicizia di Natalie Portman; scrive il libretto di un’opera; cura un’edizione moderna dell’Haggadah, il volumetto che si legge durante la Pasqua ebraica; pubblica un libro sperimentale, un centone di frasi prese da un testo di Bruno Schulz; firma un contratto con HBO e comincia a lavorare a una serie tv che avrebbe dovuto essere diretta da Ben Stiller e parlare di una famiglia ebrea di Washington DC, però a un certo punto si tira indietro. Forse, ma è soltanto una teoria, ha pensato che l’idea fosse più adatta a un libro. «Stavo soffiando aria dentro a un palloncino che si stava sgonfiando, cercando di mantenere l’idea di essere uno scrittore anche mentre cominciavo a sentirmi sempre meno uno scrittore», dirà di quel decennio trascorso senza pubblicare romanzi.

Intanto: si sposa, ha due figli, divorzia, anzi fa conscious uncoupling nello stesso anno in cui Chris Martin e Gwyneth Paltrow popolarizzano il termine; diventa amico di Natalie Portman, e i più cattivi, cioè la redazione di Gawker, malignano che c’entri qualcosa con la separazione dalla moglie; si fidanza con un’attrice, gli amici di lei dicono che è una coppia perfetta, perché Michelle Williams «legge quasi tutti i giorni»; assiste al breve ritorno sotto i riflettori del fratello maggiore Franklin, che viene chiamato da Chris Hughes, il miliardario attivista gay già co-fondatore di Facebook, per rilanciare The New Republic, però dopo si licenzia. Lascia che il T Magazine del New York Times pubblichi le email che s’è scambiato con Natalie Portman, lei ci fa la figura dell’intellettuale, mica una starlet che «legge quasi tutti i giorni», lui conferma il marchio di scrittore che flirta con Hollywood, Jezebel commenta con un titolo che la dice tutta: “Email rivelano che Jonathan Safran Foer e Natalie Portman amano i loro cervelli”; il Forward, la testata newyorchese, pubblica una feroce parodia; eppure lui non si scompone, è al di sopra delle ironie. È, come ha scritto il Time, un uomo che «dà l’impressione di avere un’idea assai chiara del suo posto nell’universo».

Eccomi parla di un matrimonio a pezzi, di tre fratelli ebrei nati in una famiglia un po’ troppo cerebrale, nonché della distruzione d’Israele (nessuno spoiler, è già tutto chiaro nelle prime pagine). Il carattere autobiografico dei primi elementi è fin troppo evidente; quanto all’ultimo, come ha notato il critico Adam Scott, è «un’astrazione lontana» di quel collasso familiare. «Nei suoi primi due romanzi Foer ha trasformato delle tragedie reali in opportunità letterarie, facendo luce sugli orrori della storia attraverso la sua sensibilità; in Eccomi fa esattamente l’opposto, utilizzando un disastro immaginario per fare luce sugli umori e sui fallimenti di personaggi simili a lui».

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In una delle sue più celebri serie di racconti, Tevye il lattaio, lo scrittore yiddish Sholem Aleichem metteva in scena la crisi di un padre davanti alla ribellione di tre delle sue figlie e poi la fuga forzata di tutta la famiglia davanti a un pogrom: gli eventi storici con la loro portata distruttiva, in questo caso i massacri degli ebrei russi nel 1880, sono il riflesso di una disgregazione più intima, il collasso dell’ordine famigliare, dei riti e del senso di direzione che essi offrono («Tradizione!», urla Tevye nel vano tentativo d’aggrapparsi ai suoi punti cardine), e tutto questo passa dall’orgoglio ferito del patriarca detronizzato. Foer compie un’operazione assai simile, ma applicata nella Washington contemporanea anziché in uno shtetl della Russia zarista. Anche Eccomi (il titolo è la traduzione dell’ebraico hinneni, la frase con cui Abramo, ovvero il primo patriarca in crisi della storia, risponde a Dio quando questi gli chiede di sacrificare il figlio) parla di un pater familias in difficoltà, di un orgoglio maschile ferito, e incidentalmente anche della distruzione del popolo ebraico, o se non altro di una delle sue incarnazioni geografiche. È, come ha notato Nadia Terranova su IL, «un libro in cui ogni battuta parla di un argomento alludendo a un altro, religione, sesso, identità e amore».

Sensi di colpa genitoriali, erezioni mancate, cosce al principio del disfacimento cellulitico e uno schiacciante senso d’inadeguatezza sono gli ingredienti principali: Giorgio Fontana l’ha definita «una resa iperrealistica dei rapporti umani», Scott una «celebrazione bombastica della piccineria della vita» nonché, soprattutto, «un contributo significativo a una letteratura emergente sulla crisi di mezza età della generazione X». Foer deve ancora compiere quarant’anni. Forse è un autore precoce anche in questo.