Attualità

I vegani sono un po’ matti?

Storia di un dibattito più serio di quanto non si tenderebbe a pensare.

di Anna Momigliano

Del suo essere vegetariano Jonathan Safran Foer diceva di avere avuto spesso l’impressione che importasse più ai suoi critici che a lui stesso. «Non ricordo quante volte, dopo aver sentito che sono vegetariano, il mio interlocutore ha reagito sottolineando una qualche incoerenza nel mio stile di vita» racconta in Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?pubblicato in Italia da Guanda nella traduzione di Irene Abigail Piccinini. Se sei vegetariano, allora perché indossi le scarpe di cuoio? Se non vuoi fare soffrire le bestie, come mai bevi il latte di vacche munte fino allo sfinimento? Non ti pare ingiusto, poi, imporre una scelta ai tuoi figli? Sono domande che capita spesso di sentire (a me, per lo meno, è capitato) quando si tocca l’argomento. È quasi un riflesso, quello di volere mettere in difficoltà chi non mangia animali, che forse mette a nudo un’esigenza tra noi altri che invece gli animali li mangiamo di smascherare l’assoluto, o in alternativa di denunciarlo proprio in quanto tale. Non è possibile vivere senza macchia. Oppure, al contrario: essere così puri è una forma di fanatismo.

Poche questioni di discussione comune toccano nervi scoperti quanto l’essere vegetariano, e ancora più l’essere vegano (cioè il non mangiare prodotti di origine animale, fatta eccezione per il latte materno). Quando, poco tempo fa, è stato inaugurato a Milano il primo asilo nido vegano, in zona Città Studi, si è scatenata una polemica sui quotidiani nazionali: alcuni psichiatri, così sostenevano La Stampa e il Giornale, temono che crescere i bambini con una dieta vegan potrebbe comportare rischi di futuri disturbi alimentari. Qualche mese prima, quando il comune di Bologna aveva annunciato l’introduzione di un menù vegano nelle mense scolastiche, il neuropsichiatra infantile Emilio Franzoni aveva attaccato l’iniziativa come una «porta aperta all’anoressia», salvo poi precisare che la sua teoria «non è scientificamente provata».

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Messi così, sembrano discorsi da bar. E probabilmente, in questi termini, lo sono: dire che una dieta vegana è l’anticamera per l’anoressia è un po’ come dire che le canne sono il primo passo verso l’eroina, oppure che una sbronza porta all’alcolismo. È invettiva, è provocazione, o forse ideologia. È il salame di Giuseppe Cruciani. In realtà però il rapporto tra autoimposizione di restrizioni alimentari e salute mentale è un argomento che da tempo interessa la comunità scientifica.

Nel 2012 tre psicologi clinici di altrettante università tedesche hanno pubblicato sulla rivista scientifica International Journal of Behavioral Nutrition and Physical Activity uno studio intitolato “Vegetarian diet and mental disorders: results from a representative community survey”. Condotta su un campione di circa quattromila interviste, parte di una più ampia indagine sulla salute generale in Germania, la ricerca tentava di capire se esiste una correlazione statistica tra dieta vegetariana e disturbi legati all’ansia, alla depressione e, per l’appunto, all’alimentazione. Ha concluso che i vegetariani avevano una probabilità tre volte superiore di soffrire di disordini mentali rispetto alla popolazione generale. Precedentemente, come cita il paper, almeno altri sette studi erano già stati effettuati sul medesimo argomento: di questi, la maggioranza concordava nel registrare una correlazione positiva tra dieta vegetariana e incidenza di disturbi psicologici, mentre uno soltanto ha trovato una correlazione negativa (che cioè i vegetariani avevano meno probabilità di soffrire d’ansia e simili) ma era condotto su un campione piccolo e non rappresentativo, i frequentatori di una parrocchia avventista. Più recentemente, nel 2015, un’altra indagine che evidenzia una correlazione tra vegetarianesimo e salute mentale, intitolata “Vegans report less stress and anxiety than omnivores” e condotta su un campione di 500 persone, è stata pubblicata sulla rivista Nutritional Neuroscience.

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Le ricerche in campi come la psicologia e altre scienze sociali hanno seri problemi di riproducibilità: esistono studi che “provano” tutto e il contrario di tutto. Per cominciare, lavorano su inferenze statistiche, cioè cercano di stabilire una correlazione tra due variabili anziché un rapporto inequivocabile di causa-effetto. Poi spesso sono condotte su campioni troppo piccoli. Per questo, più dei singoli studi, sono importanti i meta-studi che mettono a confronto i risultati di ricerche diverse. In mancanza di meta-studi hanno una credibilità maggiore (ma non per questo detengono una verità assoluta) quelli condotti su campioni ampi. Finora nessuno è riuscito a stabilire fermamente che vegani e vegetariani tendono per forza ad avere più disturbi mentali degli onnivori. Però gli studi che propendono verso questa conclusione sono più di quelli che propendono per la conclusione opposta, e tra questi c’è anche quello condotto sul campione più vasto e rappresentativo.

Perché mangiare solo in bianco è una patologia e mangiare solo piante non lo è?

E se i vegani fossero semplicemente un po’ matti? Alcuni, del resto, vedono nell’anoressia prima di tutto un disturbo dell’ansia: privandoci del cibo, più che a martoriarci o a dimagrire, desideriamo affermare un’autorità sul nostro corpo, esorcizzando il terrore di un’esistenza al di fuori del nostro controllo. E se la ricerca di un’auto-disciplina nell’alimentazione è un’espressione dell’ansia, allora c’è da stupirsi che i vegani siano più ansiosi? L’anoressia spesso porta a gravi conseguenze per il corpo, ma anche altre forme di auto-imposizioni alimentari sono considerate sintomo di malessere pur senza essere fisicamente pericolose, come l’ortoressia, l’eterna ricerca delle diete sane, negli adulti e il disturbo della nutrizione selettiva, il mangiare pochissime cose, nei bambini. Perché allora mangiare solo in bianco è una patologia e mangiare solo piante non lo è?

Come alcune paturnie siano considerate malattie ed altre no è in effetti una questione affascinante (perché la minuzia con cui i rabbini esaminano se un animale sia kasher è fede e dedizione, ma se uno sta a domandarsi se mangiare cibi di due colori diversi è follia?, si domandava Elyse Pitock in una bella testimonianza sull’anxiety blog del New York Times). Qui però non si tratta di stabilire se il veganesimo sia un disturbo alimentare: al di là delle provocazioni, è evidente che non lo sia. A ben vedere non si tratta neppure tanto di stabilire se, come invece insinuavano alcuni recenti articoli, il veganesimo possa aumentare il rischio di nevrosi. Quello che gli studi sembrano suggerire è che esista una correlazione tra ansia, depressione e il non mangiare carne.

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Se vegetariani e vegani hanno più probabilità di soffrire di disturbi psichici, non è affatto detto che siano le loro diete a causarli. Forse, come ipotizzava la psichiatra evolutiva Emily Deans, alcune persone che soffrono di disturbi alimentari diventano vegane per nasconderli (trovano una scusa accettabile per rifiutare il cibo). Magari è la sofferenza a “causare” in alcuni casi il veganismo, e non il contrario. Un po’ come con il sonno: a volte la depressione spinge a dormire troppo, ma non è che se cominciamo a dormire di più diventiamo depressi. Magari non c’è proprio alcun rapporto di causa-effetto: forse ci sono più vegani tra le persone sensibili, che tendono ad essere più empatiche verso persone e animali, ma sono anche le più esposte ai disturbi dell’ansia. A volte mi domando se a fare scattare quel genere di reazioni di cui raccontava Foer, non sia proprio la questione della sensibilità. Perché il veganesimo tocca così tanti nervi scoperti? Probabilmente perché abbiamo l’impressione che, se qualcuno non mangia carne per ragioni di sensibilità, il sottotesto sia che chi invece la mangia sia, beh, un insensibile. Per come la mette Foer, sembra che la questione sia tutta nella testa degli onnivori. In realtà non è sempre così. Non sempre la scelta vegetariana è un dito puntato contro gli onnivori, ma a volte lo è, e forse il problema di comunicazione nasce anche da lì.

Non trovo così difficile pensare che le malattie psichiatriche siano più diffuse tra vegani e vegetariani, eppure non è una ragione valida per screditare la loro scelta. È un dato appurato che i disturbi nevrotici sono più diffusi tra le femmine che i maschi, ma nessuno si sognerebbe di dire che c’è qualcosa di male o di inferiore nell’essere donna. Alcuni studi suggeriscono che la depressione è più comune tra i gay che tra gli etero, ma questo non significa che il problema sia l’omosessualità. Una volta ho letto che i malesseri psichiatrici sono più diffusi tra gli studenti universitari iscritti a facoltà umanistiche che tra quelli di facoltà scientifiche: può anche darsi che i nevrotici s’iscrivano a Filosofia, ma la filosofia certamente non causa nevrosi.

Forse davvero i vegani sono un po’ più matti degli altri. Siamo sicuri che sia un problema?

Nella foto: il retro di un supermercato a Parigi (Martin Bureau/AFP/Getty Images)