Attualità

La memoria è morta, viva la memoria

Grazie alla tecnologia utilizziamo sempre meno la memoria come facoltà, ma viviamo in un'epoca in cui regna la nostalgia. Una rassegna di casi culturali e studi scientifici.

di Cristiano de Majo

Qualche fatto. Esiste a Hollywood, Los Angeles un’azienda che si chiama Iron Mountain. Me la immagino proprio come una montagna di ferro perché contiene macchinari obsoleti, tecnologie dimenticate da quasi tutti, trovate da qualche collezionista su eBay. La ragione principale dell’azienda, come si legge dal sito, è la «gestione di documenti». E uno dei suoi clienti più importanti è Mtv. Il network, che dalla metà degli Ottanta è stata la testa di una rivoluzione difficilmente paragonabile a qualunque cosa, si è trovata a soffrire le conseguenze di una rivoluzione successiva ancora più dirompente, Youtube e la musica digitalizzata. E tra i suoi problemi ha da tempo quello di convertire un gigantesco archivio di nastri in una libreria di file.

Una storiella, riportata nel doppio numero speciale di agosto di Bloomberg Businessweek, vuole che la notte in cui Michael Jackson morì, il 25 giugno del 2009, Judy McGrath, all’epoca executive officer di Mtv, chiese di trasmettere nel corso della diretta il video in cui il cantante baciava Lisa Marie Presley durante i Video Awards del ’94. Scoprì che non poteva averlo. Il nastro su cui era registrato il video era in un archivio che in quel momento era chiuso e non poteva essere recuperato. Da questo episodio diventò pressante per Mtv il problema  di rispondere alla richiesta, che oggi è diventata imperativa per il consumo culturale, dell’on demand. La ricerca di qualunque cosa appartenga al passato diventa realizzabile attraverso l’uso dei metadati. Nelle viscere della montagna di ferro, i nastri termoplastici ritornano alle loro origini: concetti, idee – punk, pop, anni Ottanta – che il nostro cervello ha a sua volta trasformato in esperienze culturali e in ricordi.

Altri indizi. Un pezzo uscito qualche giorno fa sul New Yorker, intitolato “How Nostalgia Drives The Music Industry”. Certo, ne abbiamo letti molti di simili. Qui si presenta il ritorno sulle scene musicali di due gruppi culto degli anni Novanta: De La Soul e Dinosaur Jr, con l’intelligente sottolineatura di questa contraddizione: «In quest’era dell’abbondanza è diventato comune lamentarsi di quanto sia in sofferenza il nostro lignaggio culturale». E non basta. Le due serie forse più attese e di maggior successo degli ultimi mesi,  The Get Down e Stranger Things, hanno qualcosa in comune. Non sono soltanto ambientate in periodi vicini, rispettivamente la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, ma ricostruiscono archeologicamente due estetiche: la cultura di strada nera da cui nacque l’hip hop e quella fantascientifica della provincia americana bianca alla fine della Guerra fredda, estetiche che hanno attraversato profondamente la vita di chi, come me, è nato alla metà degli anni Settanta.

Childhood Memories

Su queste pagine Francesco Guglieri, in un articolo dedicato alla serie con Winona Ryder, ha evidenziato che la nostra passione per il passato recente è legata alla possibilità immediata di richiamarlo: «Costantemente riproducibile, archiviato, digitalizzato: questo passato è un archivio di immagini e idee richiamabile con un click, manipolabile, eternamente remixabile. Non una memoria da recuperare ma un servizio di cui fruire, senza selezione». Ci sono stati i libri di Simon Reynolds, ovviamente, e, prima di lui, molto prima di lui, qualche profezia pronunciata da McLuhan. Tutto questo però non riesce a spiegarmi esaurientemente la mostruosa fortissima sezione di Buzzfeed dedicata a quella che si potrebbe definire viralità nostalgica. E la funzione “Accadde oggi” su Facebook? E le “Memories” di Snapchat? Sempre sul New Yorker, Casey Johnston l’ha brillantemente definita «The Internet of Forgetting».

Ci sono, infine, sul piano pedagogico altri dati da mettere in questo calderone. Dati in contraddizione in qualche modo. L’ossessione abbastanza recente per l’educazione alla memoria: i giorni della memoria che proliferano con l’obiettivo di dare alle nuove generazioni una prospettiva storica e installare artificialmente un ricordo di fatti che non hanno potuto vivere, «per non dimenticare». E, dall’altro, i nuovi indirizzi scolastici che considerano una certa forma di nozionismo, ancora valido per chi faceva le scuole negli anni Ottanta, superato, controproducente: le tabelline, le poesie e tutte le altre cose che dovevamo imparare per esercitare la memoria.

Non si contano gli studi che scientifici che hanno valutato l’impatto che l’uso dei computer e di internet ha – sta avendo – sulla fisiologia del cervello umano, perché un impatto chiaramente c’è (leggere in proposito un famoso articolo di Nicholas Carr uscito su Wired nel 2010). Nel 2013 l’edizione americana dell’Huffington Post riportava un utile elenco di studi serissimi che si sono occupati del tema da vari punti di vista, dove si leggono abstract come: l’eccesso di informazioni rende più difficile conservarle; internet sta diventando per l’uomo una sorta di hard disk esterno; le distrazioni ostacolano la costruzione di ricordi; l’eccesso di informazioni ci fa perdere la visione d’insieme; la memoria dei Millennial sta rapidamente degenerando… Siamo continuamente distratti, smemorati, un Millennial ha più possibilità di dimenticarsi dove ha messo la chiavi di casa di un cinquantenne, tutto ciò che leggiamo si perde nella sfocatura di un milione di pagine sovrapposte…

Stiamo perdendo la memoria come abilità del cervello, probabilmente. Perché non ne abbiamo quasi più bisogno e, sul piano evoluzionistico, tutto ciò di cui non si ha bisogno, si perde. Allo stesso tempo, però, la memoria emotiva, nella forma della nostalgia, sembra chiedere sempre più spazio. Una memoria costruita da esperienze così come da frammenti culturali, in parte inventata, riportata, fatta di sensazioni più che di dettagli: il sentimento della memoria.

 

Foto Hulton Archive/Getty Images.