Attualità | Coronavirus

Quelli che non indossano la mascherina e gli altri

Perché il Coronavirus ha aumentato le nostre antipatie.

di Letizia Muratori

23 Aprile, Italia, Roma: Una donna indossa una mascherina fai da te (Photo by ANDREAS SOLARO/AFP via Getty Images

La vita ricomincia? A quanto pare ne è iniziata un’altra, diversa. Ha già mosso i primi passi mentre eravamo rinchiusi. In questi giorni di riapertura, d’esordio, dovremmo affrettarci ad assecondarla, imparare in fretta. Fare come giraffini neonati, cui si dà una spintarella e iniziano subito a camminare. Non essendo una specie dotata di quel talento naturale, ci mancano i passaggi intermedi, i precedenti. Spingendoci là fuori, sappiamo solo quello che vediamo. Dopo mesi, posso dire d’aver rivisto l’amico, il congiunto, il passante? L’impressione è di averlo visto, non rivisto. E di non sapere in fondo più niente di lui. L’effetto è perturbante e finalmente ha senso dirlo, senza far ridere i polli.  

Parlando con una persona che era stata sequestrata all’inizio degli anni Ottanta, ricordo che venne fuori il tema della verginità del paesaggio. Molto probabilmente si tratta di un effetto collaterale dell’essere stati sottratti alla vita. Ma che succede quando esci, libero, in un mondo di ex sequestrati? In attesa di capire cosa ci è successo, di assimilarlo, e di capire cosa ci sta ancora accadendo – perché nessuno lo sa – converrebbe ripensare al concetto stesso di libertà. Tanto per cominciare: ti devi mettere la mascherina, punto e basta, senza tante storie. Ironia della sorte, una volta usciti dal covo, dobbiamo mascherarci da banditi.

Nelle aree più colpite dal virus, le persone si sono adeguate alle regole. Per fortuna anche altrove la maggioranza appare ragionevole, ma esistono le eccezioni. E si dà il caso che ne basti uno, di ribelle, per mandare all’aria gli sforzi di tanti. Fosse per me imporrei mascherine anche ai cani. Quando non se ne trovavano in giro, me le sono fatte con i loro pannolini, dunque che sarà mai? Non si potrebbe collocare un velo assorbente sotto una museruola, che ci vuole?

Confesso che al momento io ne indosso addirittura due, una sull’altra: la chirurgica, sotto, quella aerodinamica, a becco, sopra. Faccio parte, da sempre, della fronda igienista patologica che teme più di infettare che il contrario. Temo perfino di riuscire a infettarmi da sola. Ma anche fossi normale, equilibrata, e dunque oggi mi ritrovassi per la prima volta a fare i conti con il rischio, oggettivo, di contagiare qualcuno, come avrei dovuto reagire alla scena cui, ad esempio, ho assistito ieri?

Ironia della sorte, una volta usciti dal covo, dobbiamo mascherarci da banditi

Immaginate un bar di quartiere, appena riaperto, uno di quel locali per cui tocca sentirsi proporre: «Un giorno di questi, andiamoci a prendere un caffè da asporto»È orribile a dirsi, ma è meglio di niente. Considerate poi che le porte di questo bar, non si capisce perché, pesano un quintale, e che i suoi habitué hanno in media settant’anni. Ecco, inquadrata la cornice, succede che ero lì per prendermi un solitario caffè da asporto. Ci pensavo da giorni, da giorni tentavo di farmi coraggio e ce l’avevo quasi fatta. Sulla soglia, incontro una vecchia signora, le stavo tenendo quella porta pesante, da ciclopi, per farla passare, quando ci ha travolte un essere in pantacollant al ginocchio e piumino smanicato. Mettendosi in mezzo, senza mascherina, urlava al telefonino che aveva l’allergia al polline.

Io e la signora siamo rimaste fuori e, attonite, l’abbiamo vista – l’essere era una donna – agitarsi ancora davanti al bancone. Spargendo in giro, come minimo, arroganza e idiozie. La signora si è appoggiata con entrambe le mani al bastone, facendo perno su se stessa, si è voltata e ha ripreso la sua lenta marcia verso casa: l’immagine della sconfitta. Ero sul punto di entrare nel bar, pronta a fare una strage.

Non è la prima volta che mi capita. Le mie passeggiate prudenti e animate da timide speranze, si trasformano spesso in un set pulp: di fronte a certi gesti avventati vagheggio carneficine, spappolamenti, cavamenti di occhi, denti rotti. Esco di casa bardata e assennata, ci rientro sudata fradicia, fuori di me, con le mani che mi prudono nei guanti che vorrei da boxe.

Mi calmo solo nel momento in cui, seduta sul divano, relativamente al sicuro, spingo un immaginario e asettico bottoncino che elimina questi guastatori occasionali dalla faccia della terra. Li cancello, certa però di rivederli presto. Ma chi sono? Questo è il punto. Forse l’antidoto più efficace alla rabbia che mi avvelena la fase d’esordio, in cui devo imparare a prendere le misure, è sporcarsi le mani, tentando di fare l’identikit del nemico, del tipo unmasked.

Negli Stati Uniti la divisione tra chi porta la mascherina e chi no è diventata da subito una faccenda politica, come si dice, polarizzata. Se, mettiamo, un commesso di Trader Joe’s richiede a una cliente smascherinata di mantenere almeno la distanza di sicurezza, quella gli risponde a tono: «Siamo negli Stati Uniti, in un paese libero…». In Texas, un poveraccio si è beccato un colpo al torace da un libertario salito sul suo stesso autobus a volto scoperto. La vittima aveva osato farglielo notare. Le carneficine sono capaci di farle davvero solo certi volti unmasked, è che non gli mancano i mezzi, sono armati fino ai denti. Se entri in un supermercato che non sia Whole Foods o Wegmans, ovvero in una delle roccaforti democratiche della prevenzione, sai già chi ci incontrerai, fiero di essere libero: un impeccabile repubblicano vecchio stampo, un white trash rincoglionito dal cibo neurotossico, un razzista con la bandiera confederata che gli sventola dal finestrino del Silverado.

Da noi la divisione in bande, non essendosi polarizzata politicamente, è più imprevedibile e più insidiosa. Tanto che capita di ritrovarsi nemici tra gli amici. Per non parlare dei congiunti anarcoidi, che fanno i bulli col virus, cui ti lega solo il sangue. Subirli, pensare a un’estate in comune, in comuni proprietà affollate, pensare che non potranno più raggiungere le amate isole greche, che invece saranno tutti lì a interpretare una novella boccaccesca o il giardino dei Finzi Contini, è una prospettiva agghiacciante. C’è di peggio, ovvio, c’è chi si è dimenticato dell’estate, chi non può permettersela. Per certi versi: beato lui.

La mia domanda, rivolta anche al più sofisticato degli individui che però non si adegua alle imposizioni sanitarie, che non accetta limiti, fastidi, né presunte umiliazioni, è: Ma chi cazzo ti credi di essere? Seguita da un: Crepa.

Tra gli effetti collaterali del virus, mi misuro continuamente con questo genere di invettive assatanate. Sono a un passo dal roteare la testa sul collo e rimbalzare per le scale in camicia da notte, come la piccola Regan dell’Esorcista. Da dove viene questo odio che mi possiede? Lasciamo pure perdere il rischio di seconde, terze ondate, altissimo, e tutto dipende dai nostri comportamenti, occupiamoci invece di quello già in atto:  in nome della libertà, di un principio, di un cinico menefreghismo, i malati, gli immunodepressi, i più deboli, dovrebbero restarsene a casa terrorizzati, sequestrati a vita? A me piace addormentarmi, in camicia da notte, con la coscienza apposto, sognando di essere buona.

Dunque mi rincresce macchiarmi ogni due ore di un delitto efferato, di girare come un menagramo in guanti neri, di sollevare il dito medio alle spalle di un runner – è sempre lo stesso, tra l’altro. Al dito alzato, aggiungo puntuale: «Brutto nano».

Dovrei darmi una calmata, lo so. Rispettare chi la pensa diversamente, come fingevo di fare un tempo, non dimenticare i principi in cui sono stata cresciuta. Ma non ci riesco, perché sono alle prese con un mondo che non conosco, in cui, per dirla con la cara Joan Didion, tutte le storie che mi sono raccontata finora non valgono.

Ma c’è pure qualche conferma: i peggiori, tanto per cambiare, sono maschi, bianchi, di mezz’età. Non è un modo di dire: indiani, filippini, africani, perfino i rom ai cassonetti, girano sempre con le loro brave mascherine addosso. Mentre i papà del mio quartiere, quando non rimproverano a volumi assordanti i loro figli sui pattini, ne approfittano per fare delle telefonate interminabili, sempre all’aperto, sempre a volto scoperto. Ma perché, mi chiedo, non chiamano da casa? Magari parlassero con l’amante, magari ce l’avessero, questi qui chiamano, clandestini, gli assicuratori e i commercialisti. E così ti tocca pensare di morire, sentirti morto, lavarti i capelli dieci volte al giorno, perché in una stradina asfittica un papà ti ha sputato addosso le sue rate in scadenza. Segnalo che, in generale, lo smart working, per lo meno a Roma e dalle mie parti, sarebbe più corretto chiamarlo street working.

Anche le donne si comportano male, per carità, e sono anche loro bianche, di mezz’età, non particolarmente attraenti. Nemiche giurate della mascherina, fanno le simpatiche, le sportive, con i papà. Vivono la loro grande occasione. Davanti ai negozi di alimentari va in scena la rivincita della bruttina servile. Non si dice? Me ne frego, come Achille Lauro, Rhett Butler e Mussolini, come i maschi cui quelle leccano il culo.

Non abbiamo spazi sterminati a disposizione e se non indossi la mascherina, davanti ai luoghi chiusi, in fila, dovresti almeno chiudere la bocca.

Ora, mi scuso, ma l’ho detto: sono posseduta dal demonio. E chiarisco che non pretendo di imbavagliare la gente all’aperto, anche se mi piacerebbe, e che applicare o meno una norma non dipende dalla razza, dal sesso, dall’aspetto fisico. Purtroppo, però, non abbiamo spazi sterminati a disposizione e se non indossi la mascherina, davanti ai luoghi chiusi, in fila, dovresti almeno chiudere la bocca. Ma niente: c’è chi si è perdutamente innamorato della via svedese alla gestione della pandemia, trasportandola senza colpo ferire su marciapiedi striminziti e dissestati, pieni di cacche di cane. A sentire gli smascherinati, sono le colf che non le raccolgono più. «Era ora» – ho detto l’altro ieri a una –  «raccoglitela da sola». Non ha avuto il coraggio di replicare, devo averle messo paura.

Sorvolando sulla reazione, addirittura idrofoba, che mi hanno provocato certe immagini di fate scandinave sorridenti e intente a sorseggiare birre, e sul conseguente delirio da pubblicità Peroni, ai tempi di Solvi Stubing, che ha stregato i ribelli libertari del Mediterraneo di casa mia, passo agli adolescenti: sono invisibili, spariti. A sentire i genitori, c’è il problema dell’autoisolamento, stavolta giapponese: stanno tutti rinchiusi in cameretta e non ne vogliono più sapere di uscirne. I ragazzi più grandi, invece, portano spesso la mascherina e mai sospettavo di riscontrare tanta saggezza nei ventenni. A sentire, sempre i soliti genitori, i ragazzi sono terrorizzati di infettarli.

Poi c’è tutta la categoria dei lavoratori, parlo dei corrieri, degli operai, dei netturbini, dei postini: sono i campioni del “leva e metti”, della mascherina portata a sciarpa, sul mento. Non mi sta affatto bene, ma non riesco a negargli una boccata d’aria, senza sentirmi un mostro sfruttatore.

Un discorso a parte meritano gli snob. Si dividono in due categorie: quelli che, all’occorrenza, si coprono con una pezza qualsiasi, e più che da un virus pare si difendano da una folata di puzza passeggera. E quelli che incedono a testa alta, muti. I muti sono spesso in coppia, con la moglie, anche lei muta. Hanno un’aria ornitologica, impennacchiata, anche perché portano la scoppola o un panama. Si coprono la testa, ma non la bocca. Sono comici, gli uccellacci col cappello, ma almeno non molesti.

Uscendo, sappiamo solo quello che vediamo, senza precedenti. Pur appartenendo alla specie sapiens che ci ha messo un’eternità a tirarsi su, in posizione eretta, fermo restando che abbiamo molto da invidiare alle giraffe, confido che ci adatteremo, anche perché non abbiamo scelta. E chi crede di avere alternative, di spuntarla facendo finta di niente, non è bravo, libero e fiero: è in sella alla moto d’acqua di Bolsonaro.

p.s. In coda, segnalo a chi non se fosse accorto, che la mascherina alliscia le rughe, distende, è meglio di un massaggio. Chi lo sa, potrebbe essere un argomento convincente.