Attualità

I libri del mese

Cosa abbiamo letto ad aprile in redazione.

di Aa.Vv.

A nun reads a book under blossoming trees during a sunny spring day at Petrin Hill on April 21, 2015 in Prague. AFP PHOTO / MICHAL CIZEK (Photo credit should read MICHAL CIZEK/AFP/Getty Images)

Simon Winchester – Il professore e il pazzo (Adelphi)
Trad. Maria Cristina Leardini

All’apparenza, Il professore e il pazzo racconta una storia affascinante, bella, inaspettata, cioè più o meno tutto quello che serve per un buon libro storico di intrattenimento: si ripercorre il rapporto tra James Murray, anima e direttore della stesura del primo Oxford English Dictionary, grandiosa e pluridecennale opera ottocentesca (e primo vocabolario di lingua inglese) e William Chester Minor, ex medico e capitano dell’esercito statunitense, schizofrenico paranoico rinchiuso in un manicomio vicino a Oxford, dottissimo linguista e contributor tra i più prolifici dell’impresa oxfordiana. Il fascino della storia è nel rapporto tra i due: oltre alla piccola redazione dell’Oed, qualsiasi intellettuale dell’epoca venne invitato a compilare e inviare le schede dei lemmi per aiutare, finalmente, la nascita della mastodontica opera di “standardizzazione” della lingua inglese, mai redatta fino ad allora. Murray ricevette un aiuto enorme da Minor – i due stabilirono anche una sempre dottissima corrispondenza – ma ignorò per anni il suo status di recluso in un asylum criminale: che fosse un monomaniaco e omicida lo scoprì soltanto molto dopo, quando l’Oxford English Dictionary era per metà costruito. Ottimi ingredienti, insomma. Quello che rende Il professore e il pazzo un libro molto più importante (che rende ogni libro di Simon Winchester più importante della “semplice” storia narrata) è il suo essere un’ode alle parole. Murray, parlando delle difficoltà della sua impresa, scrisse che stava aprendosi la via «in una foresta inviolata dove mai prima di noi è passata l’ascia dell’uomo bianco». Si sente in questo libro la meraviglia delle lingue e del linguaggio, l’affanno dell’uomo nel rincorrere questa magia – la comunicazione – che fugge e si evolve sempre più in fretta delle regole in cui proviamo a ingabbiarla, e da cui comunque sfuggirebbe. Soltanto attraverso le parole la specie umana è arrivata all’invenzione, ciò che ci rende unici tra gli animali. Le parole sono importanti, la cosa più preziosa che abbiamo. Fa bene ricordarsi di prendersene cura, nel privato e nel pubblico. (Davide Coppo)

 

Leonard Michaels – Il club degli uomini (Einaudi)
Trad. Katia Bagnoli

«Le donne volevano parlare di rabbia, di identità, di politica, eccetera». Così inizia questo libro pubblicato nel 1981 (che ispirò un delirante film con Harvey Keitel, The Men’s Club), e potrebbe benissimo essere un incipit scritto l’altro ieri. Per i motivi che tutti sappiamo, ci siamo ritrovati a vivere in un periodo in cui le donne, anche quelle ricche e famose, sembrano aver cominciato a ragionare (chi più seriamente, chi meno) di “rabbia, di identità, di politica”, mettendo al centro l’orgoglio femminile e la celebrazione della femminilità. In questa festa molto rosa, di cui l’esempio più recente è “Pink” di Janelle Monáe, una canzone e un video che hanno la vagina come protagonista (e altri esempi più riusciti, dalla letteratura ai podcast, dal giornalismo alla tv, di cui abbiamo parlato nella nostra serie sul tema dell’identità femminile), il libro di Leonard Michaels spunta all’improvviso come un ospite indesiderato. A chi mai potrebbe importare qualcosa, in questo momento, di “un club degli uomini”? In realtà, già con il suo Sylvia (Adelphi 2016), in cui raccontava la storia d’amore con la sua prima moglie, magnetica, matta e morta suicida, Michaels aveva dimostrato di saper raccontare la donna, la malattia mentale, il sesso e l’amore con tonalità inedite, come se per scrivere usasse quelle stilografiche fatte con le piume: solleticando il lettore per farlo ridere fino alle lacrime e poi, improvvisamente, infilzandolo con la punta inchiostrata. Questo libro è ancora più spassoso, non per questo meno pungente. Racconta della nottata di un gruppo di sette uomini che si incontrano per la prima volta a casa di uno di loro, con l’intento di formare un club maschile. Il finale è straordinario e teatrale, i dialoghi e le descrizioni dei personaggi scoppiettanti come petardi (se fossi una giovane scrittrice sognerei di riuscire un giorno a scrivere come Michaels, con la risata trattenuta dentro ogni frase, insieme al magone e all’attacco isterico – tutte cose che, con tempismo perfetto, è capace di far esplodere). Ma Il club degli uomini risponde soprattutto a una domanda: di cosa parlano gli uomini quando si trovano soli tra loro, e bevono e mangiano e fumano marijuana e a un certo punto, oltrepassato il limite del pudore (e della sobrietà) decidono di rivelarsi per quello che sono? Di donne, ovviamente. Soltanto di donne. Che tra l’altro, nelle storie narrate in queste 131 pagine, fanno pure una bella figura. Sono gli uomini a uscirne come un branco di coglioni. Adorabili, però. (Clara Mazzoleni)

 

Letizia Muratori – Spifferi (La Nave di Teseo)

Dev’essere un vezzo da non più giovane, ma inizio a provare sempre più curiosità per le cosiddette opere minori: racconti, romanzi brevi, novelle, incompiuti, piccole letterature che provano a persuaderti che sia in fondo questo lo spirito della letteratura stessa, quello di essere minore per definizione. Altro che opera-mondo, in questo nuovo libro di Letizia Muratori – una raccolta di sei racconti, costruiti come variazioni intorno al tema del fantasma – siamo di fronte a un’opera-condominio, e lo dico con ammirazione  per l’atmosfera deliziosa che si respira, per la naturalezza dello stile, per il divertimento con cui si legge e anche per questi personaggi così strani che almeno uno in mezzo agli altri ti sembra di averlo conosciuto; forse era quello del terzo piano, o il tizio che hai incontrato al supermercato. Su tutti svetta “Rispondi a Dimitri”, un racconto perfetto che incrocia Yasmina Reza con Grace Paley, e che fa letteralmente ridere come quasi mai capita: i genitori anziani della voce che racconta instaurano una relazione telefonica con un certo Dimitri, che di punto in bianco inizia a chiamarli regolarmente e continua a farlo per anni, finendo per essere accettato da tutti, fuorché dalla voce narrante stessa, come una persona di famiglia. In Spifferi ci sono vecchie case borghesi, ville di campagna, appartamenti al primo e all’ultimo piano, attraversati da storie sbieche e vagamente gotiche, magari non “necessarie”, quelle che ti capita di sentire davvero a una cena o a casa di parenti, e che ti spiegano il senso della vita rifuggendo dalle grandi teorie, ma semplicemente aprendo crepe di ilarità o di amarezza. (Cristiano de Majo)

 

Walter Siti – Pagare o non pagare (Nottetempo)

Qualcuno – forse Freud, forse un altro cervellone di epoca pre-sessantottina – qualcuno ha detto che sesso e denaro sono i due grandi tabù, due cose che ci riguardano tutti da vicino ma di cui evitiamo di parlare. Il tabù del sesso è caduto da mezzo secolo almeno, ma duole constatare che quello del denaro persiste. Ecco perché questo libretto di Walter Siti, è qualcosa di cui si sentiva (per lo meno lo sentivo io) il bisogno: un saggio breve sul valore delle cose, sulla free economy e sulla crisi. Che, tra l’altro, ha anche la fortuna di essere uscito al momento giusto, quando tutti, chi più o chi meno, siamo stati costretti a sbattere il grugno sul fatto che, quando godiamo di un bene o di un servizio gratis, è perché ad essere in vendita siamo noi. Siti mette a fuoco, mettendosi in gioco in prima persona, alcune contraddizioni dei nostri tempi e della sua generazione: per esempio quando confessa, candidamente, di vivere di pensione, mica di scrittura, lui che è un premio Strega, e poi aggiunge di sentirsi un po’ in colpa perché sono anche le pensioni come le sue che hanno contribuito a creare il debito pubblico. Racconta del piacere di pagare e di come sia andato perso, a favore di «una schiavitù del free», che «sembra un ossimoro ma non lo è». Si dimostra un acuto osservatore, quando racconta «la malinconia crepuscolare dei piccoli lussi che oggi ci concediamo»: ha capito che dietro un certo infighettamento soft, come il concedersi qualche cena in più fuori di qualche anno fa, c’è la consapevolezza che non durerà. (Anna Momigliano)

 

James Purdy – Non chiamarmi col mio nome (Racconti Edizioni)
Trad. Floriana Bossi

Che la forma del racconto stia da anni vivendo un nuovo rinascimento è ormai cosa nota. Probabilmente per venire incontro alle nostre capacità mentali (attentive), i volumi che li raccolgono sono una scorciatoia per entrare nella poetica di autori obbligatori e con una produzione più corposa, ma anche un prezioso da leggere a spizzichi, godendo per quelle cose più piccole, che stanno in una mano. La raccolta Non chiamarmi col mio nome aiuta ad avvicinarsi allo statunitense James Purdy, un autore «molto conosciuto come scrittore poco conosciuto», come lo descrive la biografia stilata da quelli di Racconti, che a febbraio ne hanno pubblicato questa raccolta (una delle prime, datata 1956). James Purdy ha scritto numerose raccolte di racconti, romanzi (Rose e cenere, Cabot Wright ci riprova, Malcom) e pièce senza godere di un forte successo di critica e pubblico, ma conquistando la stima artisti come Dorothy Parker, Gore Vidal e Jonathan Franzen, che lo definì uno degli autori più sottovalutati d’America. Appassionato delle relazioni familiari e irrimediabilmente attratto da quell’umanità ai bordi, nascosta, Purdy entra nelle storie del quotidiano senza dare troppi dettagli e le rende paradigmi, specchi. Ci fa entrare nel bel mezzo di una scena come se ci trovassimo in una sorta di parco a tema dei piccoli drammi dell’essere umano. Dove le attrazioni sono le improvvise agnizioni o le giornate inutilmente riempite da dei frappé al bar. I nostri giorni. Purdy non dà troppi dettagli ma poi ne dà fin troppi, come quando capita di parlare con qualcuno che non vedrai mai più ma che ti sembra di avere conosciuto attraverso la strada più breve, quella che va al cuore e all’anima. Leggi della solitudine e della mancanza di speranze di Mrs Farebrother, delle feste finte, dei vestiti prestati e delle cimici di Fenton e Claire; un susseguirsi di ruoli e di luoghi che si scollano che finiscono per non tenere raccontati con uno stile netto, sferzante e al contempo fisico, fatto di velluto. Iperreale, parla di te. Capita che leggendo dei racconti ci si chieda se non siano forse dei romanzi pigri o codardi. In Non chiamarmi col mio nome questa sensazione manca. Quando – come ne “Il Suono delle parole” o “Taglio moderno” – si usano le giuste parole per dire tutto quello che c’è è uno di quei rari momenti di quadratura del cerchio, e non si può che goderne. (Teresa Bellemo)