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E adesso non si può più ridere?

La comicità e la guerra sembrano incompatibili eppure la storia ci insegna che ridere è anche un modo di sopravvivere.

di Jacopo Cirillo

Soldati ucraini di stanza nel villaggio di New York (ex Novhorodske), vicino al fronte (Foto di Brendan Hoffman/Getty Images)

In alcuni momenti e situazioni storiche particolarmente drammatiche e opprimenti, ridere sembra sempre fuori luogo. C’è la guerra, non c’è niente da ridere. Ci vuole rispetto. E questo vale sia per le scorie infodemiche dei meme su Zelenski e Putin, sia per i comici professionisti che, quando fanno semplicemente il loro lavoro − cioè divertire la gente −, paiono stonare, esagerare, e viene sempre da domandarsi se debbano trattenersi, almeno per questa volta, e aspettare tempi migliori.

Il fatto, però, è che non si capisce bene quando tale imperativo morale debba essere applicato e quando no. Pensate per esempio alla grande differenza di percezione tra la prima e la seconda edizione di LOL – Chi ride è fuori, il format di Amazon Prime. Per la prima, in streaming durante il lockdown più duro, sentivamo motivare il suo grande successo con la frase “abbiamo proprio bisogno di ridere in questo momento”. LOL 2, invece, è andato online proprio lo stesso giorno in cui la Russia ha attaccato l’Ucraina, e sui siti specializzati e non si leggevano cose tipo «Pubblicizzato, atteso, rilanciato su qualsiasi canale per oltre un mese. Poi, al momento dell’ingresso in scena, ecco la percezione di smarrimento, la sensazione di sentirsi fuori luogo». Anche uno dei vincitori morali del format, Max Angioni, durante la conferenza stampa di lancio aveva detto: «La prima stagione di LOL è stata un momento astrale incredibile. Spero che la seconda stagione non vada in onda durante la guerra». E invece.

Percezione di smarrimento, sensazione di sentirsi fuori luogo, speranze mal riposte e uno strisciante senso di colpa, sia per chi partecipa che per chi, da casa, guarda e vorrebbe farsi due risate. In questo momento, dunque, al contrario del lockdown (momento astrale incredibile), sembra proprio che non abbiamo più bisogno di ridere o che, almeno, non possiamo più dire di averne bisogno. Ma le cose, come sempre, sono più complicate di così.

Facciamo un passo indietro e parliamo di nerd della comicità. Come per qualsiasi argomento immaginabile, anche attorno alla filosofia e alla sociologia dell’umorismo si trovano tantissimi siti, forum e blog iperspecializzati che tengono traccia di tutte le ultime novità in materia, soprattutto riguardo a uno dei rompicapi che ha coinvolto innumerevoli pensatori fin da Aristotele e Platone: definire una teoria filosofica che abbracci tutto lo scibile del comico. Ultimamente ci si trova abbastanza d’accordo nell’indicarla come la teoria dell’incongruenza: noi ridiamo quando qualcosa o qualcuno ci risulta incongruo, fuori posto, dove non ce lo aspettavamo (Pirandello parlava di un’anziana signora vestita da ragazzina), e questo slittamento cognitivo suscita l’ilarità. È chiaro che, visto il ventaglio quasi infinito di cose che possono essere definite incongrue rispetto a qualcos’altro, tale meccanismo è abbastanza generico per riuscire ad accogliere più o meno tutto. Il problema con la teoria dell’incongruenza è che si tratta di una teoria descrittiva, non esplicativa. Ci dice di cosa ridiamo, ma non perché lo facciamo. La soluzione, dunque, è combinarla con qualcosa che spieghi le motivazioni del riso, e per farlo bisogna partire da quello che Freud chiamava principio di realtà.

Secondo il padre della psicanalisi, esistono due modalità di funzionamento mentale: il principio del piacere e il principio di realtà. Il principio del piacere ha come scopo la gratificazione immediata, quello di realtà è al contrario un principio regolatore che si occupa di rinviare la gratificazione personale in funzione delle condizioni imposte dal mondo esterno. Come dire: prima di prenderti bene per qualcosa, devi fare i conti con le sue implicazioni per gli altri e per la società in cui sei immerso. Se ridi durante una guerra, devi pensare che molte persone, in questo momento, non hanno proprio nulla di cui divertirsi. Allora, riprendendo l’idea freudiana secondo la quale le battute e i motti di spirito rappresentano una liberazione dell’energia psichica che normalmente investiamo nel mantenere alcune inibizioni sociali essenziali (il sesso, ovviamente, o la morte, o la guerra), fare umorismo significa, come nel gioco per i bambini, cercare di affrancarci, almeno per un attimo, dal principio di realtà. Una cosa di cui, in quanto esseri umani, abbiamo naturalmente bisogno.

Lo sappiamo tutti: stare al mondo è difficile, soprattutto ultimamente, e il mantenimento della realtà quotidiana e della nostra percezione di essa richiede, e ha sempre richiesto, un continuo meccanismo di repressione. Sàndor Ferenczi, grande psicanalista ungherese, diceva sempre che rimanere seri è una repressione riuscita. Il nostro censore interiore continua a ripeterci che no, questo non lo possiamo fare e che no, di questo non possiamo ridere. L’umorismo rappresenta allora la valvola di sfogo, il palliativo che l’essere umano ha inventato per rimanere sano e non disintegrarsi di fronte all’incomprensibile entropia dell’universo.

Ecco perché si ride della guerra, ed ecco perché si può (si deve?) ridere anche durante una guerra. Non certo per mancare di rispetto alle vittime ma, letteralmente, per non sbroccare. E dunque qual è la differenza tra LOL 1 e LOL 2? Tra la pandemia e la guerra? Nonostante il lessico militaresco molto simile usato dai media per le due catastrofi, la “guerra contro il coronavirus”, contro “il nemico invisibile”, non aveva carnefici ma solo vittime, e dunque c’era bisogno di ridere perché eravamo tutti nella stessa barca, condividevamo lo stesso principio di realtà. Non c’era − al netto dei complottismi − qualcosa o qualcuno su cui poter scaricare ogni responsabilità, un nemico comune e altro da noi, un colpevole nei confronti del quale si potesse inorridire.

Adesso invece che il principio di realtà è più duro da mandare giù − c’è effettivamente un pazzo squilibrato che minaccia il mondo, con un nome, un cognome e una faccia − farsi una bella risata è diventato molto più difficile da accettare socialmente, il Grande Tabù è stato antropomorfizzato nel volto innaturalmente rotondo di un vecchio russo. Paradossalmente, invece, è proprio questo il momento in cui c’è più bisogno di ridere, di utilizzare l’umorismo, di disinnescare, almeno per un momento, le nostre paure più recondite, che non si articolano più attraverso qualcosa di naturale e inqualificabile come un virus ma, al contrario, tramite un altro essere umano. Pensate alla barzelletta

Paziente: Quanto tempo mi resta da vivere?
Dottore: Dieci.
Paziente: Dieci cosa? Anni? Mesi? Settimane?
Dottore: No, no: dieci, nove, otto, sette…

Oppure alla famosa battuta sul nonno di Woody Allen che ha venduto al nipote un orologio sul letto di morte. L’umorismo è sempre una compensazione della nostra mortalità, e il suo compito è anche quello di rendere più accettabile la follia del mondo con la quale siamo forzati a confrontarci a partire dalla consapevolezza della nostra finitezza e, dunque, inutilità nel grande corso della Storia. Ma attenzione: l’umorismo macabro non serve solo a negare la morte o ridimensionarla ma anche, o soprattutto, a sfogare la nostra rabbia verso di essa e verso quell’ineluttabilità inquieta che ci accompagna fin dalla nostra nascita. Alla fine, la comicità è in tutto e per tutto un esorcismo e adesso che stiamo avendo a che fare con dei veri demoni, sembra proprio la cosa più naturale, e più umana, che possiamo mettere in atto per (fingere di) soffrire un poco di meno.