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02:25 mercoledì 26 marzo 2025
È stato ritrovato il pilot dei Griffin, che tutti pensavano fosse andato perduto 30 anni fa. La scoperta l'ha fatta un utente del sito Lost Media Community, che lo ha subito pubblicato su YouTube.
La sorprendente somiglianza tra Jude Law e Vladimir Putin nella prima immagine del film Il mago del Cremlino. Diretto da Olivier Assayas, è l'adattamento del romanzo omonimo di Giuliano da Empoli.
I ministri di Trump hanno aggiunto per sbaglio un giornalista in una chat in cui si discuteva di bombardamenti in Yemen. E non un giornalista qualsiasi: il direttore dell'Atlantic Jeffrey Goldberg.
Hamdan Ballal, uno dei registi di No Other Land, è stato aggredito dai coloni in Cisgiordania e sequestrato dall’esercito israeliano. Al momento non si sa dove sia né in che condizioni versi.
Herbie Hancock ha detto che non fa un album da 15 anni perché si distrae continuamente con YouTube. «Sono vittima di questa cosa, ma che ci vuoi fare, è la vita», ha detto in un'intervista a Bbc.
Su YouTube è uscito il sequel di Leaving Neverland, il documentario sui presunti abusi sessuali commessi da Michael Jackson. Il regista è lo stesso e i "protagonisti" sono sempre Wade Robson e James Safechuck, i due uomini che accusarono Jackson nel 2019.
Bong Joon-ho ha chiesto a John Carpenter di scrivere la colonna sonora del suo prossimo film e lui ha detto subito sì. I due si sono messi d'accordo durante una proiezione della versione restaurata de La cosa.
Si è scoperto che prima di fare il ministro, Guido Crosetto ha lavorato con Marlene Kuntz e Afterhours. E di diverse altre band, grazie a un'associazione culturale chiamata Zaboom: lo ha raccontato in un'intervista a "Un giorno da pecora".

La condizione umana al tempo della supply chain

Grano, gas, petrolio, metalli e fertilizzanti: la guerra si sta manifestando anche come una minaccia portentosa al nostro stile di vita, e non abbiamo alternative.

08 Marzo 2022

Come reazione alla guerra in Ucraina, Europa Verde ha proposto lo sciopero del gas, «atto pacifico e non violento», partecipare al conflitto riducendo di due o tre gradi le temperature di case e uffici. Dichiarare il termostato oggetto belligerante è un’iniziativa coerente e lodevole, ma la dipendenza europea dal gas russo è solo la notizia da prima pagina di un giornale che potremmo riempire di situazioni del genere. Il nostro stile di vita è basato sulle co-dipendenze, la globalizzazione è una gigantesca, irrisolvibile co-dipendenza. Per esempio, Russia e Ucraina producono il 25% del grano mondiale, le notizie dal fronte ci riguardano e ispirano terrore a un’area del mondo che copre nord Africa, Medio Oriente e sud-est asiatico. La guerra sarà un domino per l’alimentazione del mondo. Secondo la Fao, un terzo delle calorie consumate in Libano e metà del grano importato nel 2020 venivano dall’Ucraina, così come il 43% in uno stato fallito come la Libia, il 22% nello Yemen in guerra e carestia, il 21% in Bangladesh, il 14% in Egitto, il più grande consumatore mondiale di grano ucraino, in una regione dove l’ultima rivoluzione, la Primavera araba, è partita per fame. Non è ovviamente solo un problema degli altri: il mais è ai livelli più alti dal 2013 e il grano dal 2008 e noi importiamo da lì il 64% del grano che usiamo per farina, pane e biscotti e il 53% del mais per mangimi. Il prezzo della pasta da noi salirà secondo Federalimentari del 10% a causa della guerra, ed era già cresciuto del 10% per i rincari energetici. E non ci possiamo fare niente.

È la guerra di quelli che seguono il conflitto più su Bloomberg che sul New York Times: i prezzi del nickel sono ai livelli più alti del decennio, è un guaio per le batterie delle auto elettriche, che hanno un contenuto ineliminabile di questo metallo, «il rame del diavolo», che per il 7% viene prodotto in Russia. Da Mosca co-dipendiamo anche per palladio e alluminio, elementi fondamentali per l’industria dell’automobile già messa nei guai dalla crisi dei semiconduttori. Uno dei paradossi di questa guerra: svela le miserie e i pericoli dell’economia del mondo vecchio, quella alimentata da combustibili fossili, ma mette in crisi anche quello nuovo, la transizione energetica, il futuro elettrificato che è la nuova, grande aspirazione delle nazioni civili e che è − appunto − basata su nuove co-dipendenze, da Paesi di cui sappiamo poco, come il Cile e il suo litio, o pochissimo, come la Repubblica Democratica del Congo e il suo cobalto, o di cui credevamo di sapere molto, come la Russia, e invece non sapevamo nulla.

La Russia è solo il 2% del Pil globale, in casa non abbiamo nessun prodotto russo a parte la vodka e i libri di Dostoevskij, ma è ancora il capanno degli attrezzi del mondo, petrolio e gas, metalli e fertilizzanti. Quanto pensavamo alla Russia fino a gennaio? Eppure se alziamo il cofano del nostro stile di vita e guardiamo il motore, nella parte sporca di grasso che sanno maneggiare solo meccanici e tecnici delle supply chain, spira forte l’odore di Russia, e non quello che piace a Paolo Nori. E ovviamente, spiace dirlo, questo è niente, e sì, dobbiamo parlare della Cina. L’entry level della discussione geopolitica attuale è: dopo l’Ucraina, toccherà a Taiwan, l’isola sovrana e indipendente che la Cina reclama come proprio territorio e che è uno dei punti pressione delle nostre paure per il futuro. Lo scorso weekend era la frase con cui vincere i turni di parola alle cene, con quel sapore di eventi e prospettive remote. E invece è una prospettiva che avrebbe le conseguenze di un lockdown in stile 2020. Non solo perché Taiwan ci nutre di microchip, ma perché una guerra di sanzioni in stile russo con la Cina avrebbe effetti terrificanti, non è qualcosa che ci potremmo mai permettere.

Per dire, se il nostro telefono vibra, ha un touchscreen o si illumina, è per una serie di magneti che oggi si fanno solo in Cina, basati su terre rare che solo i cinesi hanno imparato a lavorare su scala industriale. Non sappiamo cosa sia il neodimio, ma se ce lo togliessero non sapremmo letteralmente più cosa fare di noi stessi, come flirtare od ordinare cibo o stare su Zoom. Non potremmo nemmeno più fare la transizione, visto che 7 dei 10 grandi produttori di pannelli fotovoltaici sono cinesi (e nessuno è europeo). Il dominio cinese sulle materie prime, in territorio suo, nel resto dell’Asia e in Africa, è qualcosa che non possiamo che accogliere con beata inconsapevolezza. L’esperienza della vita contemporanea è poter smettere istantaneamente di funzionare a causa di eventi incontrollabili e non poterci fare assolutamente nulla.  Ormai si sente parlare di supply chain anche negli spogliatoi delle piscine di Milano. La catena del valore è il principio di ordine del capitalismo globale, il grande nastro trasportatore che nella versione brandizzata cinese si chiama Belt and Road Initiative. Non c’è nessun alternativa a questo, non dopo aver deriso e archiviato qualunque prospettiva di decrescita o aver relegato il concetto dei limiti dello sviluppo ai libri buoni per le bancarelle. Abbiamo uno stile di vita troppo complesso per garantirci qualunque indipendenza da partner che non avranno mai i nostri valori e che usano i nostri agi per spezzarli, quei valori. Siamo clienti dei nastri trasportatori globali, oggi un volo cargo dall’Asia all’Europa deve impiegare l’8% del tempo in più per evitare le zone di guerra, 8% della benzina, in più 8% dei costi in più per noi, e possiamo solo pagare, perché vogliamo troppe cose, troppo in fretta, fatte troppo bene. È come vivere sempre nel canale di Suez, il 23 marzo sarà il primo anniversario del blocco della nave Ever Given. Sembrava una metafora visiva, invece era proprio una minaccia.

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