Attualità | Società
Come essere felici con un gruppo Whatsapp
E se la soluzione fosse non chiudere i social ma chiudersi nei gruppi?
Negli ultimi mesi ho riscoperto il piacere di scorrere i social network, se mi guardo intorno decisamente in controtendenza e perciò, come vorrebbero Vonnegut e Marie Kondo, ho il dovere di condividere questa gioia. Capisco, la disaffezione per i social è un sentimento molto comune e anche io, a lungo, non ne sono stato immune. Sono uno di quelli che ha letto Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social annuendo a ogni pagina e poi Chiudete internet annuendo ancora, e però, appena finito di annuire, con la testa ancora bassa ho aperto Instagram e messo una valanga di like. Sono rimasto dentro a leggere e a osservare, senza combattere nessuna battaglia interiore. Vedendo che mi apparivano prodotti che avevo appena nominato o citato altrove – dunque mi spiano! Fa niente, li ho comprati lo stesso. Senza immaginarmi come un moderno stilita a-social, senza atteggiarmi a sapiente convinto da un paesino di aver detto la cosa giusta e aver fatto la mia parte.
Il merito va a una funzionalità che avevo sempre creduto fosse stata realizzata dal Maligno in persona per rovinarci le vite: le chat private (su Whatsapp, Messenger, dove capita). In certe chat (ovviamente non quelle coi genitori o coi compagni di classe delle superiori) ho riscoperto la sensazione di complicità che trovavo nei social quando ho cominciato a usarli. Non le notizie, lo stare al passo coi tempi, il saper trovare lo spunto interessante in mezzo alle ossessioni degli altri che, nella migliore delle ipotesi troviamo sui social quotidianamente, ma proprio il divertimento e il piacere. Per esempio ho un gruppo che si chiama “Stay tuned” e lì, quotidianamente, ci scambiamo tweet o screenshot di persone che promuovono il proprio lavoro in maniera rocambolesca. Sì, certo, è necessario, ce ne rendiamo tutti conto. Fa parte dei compiti della moderna Partita Iva. Anche se sta bruciando Notre Dame e non sappiamo ancora se la struttura della cattedrale crollerà, non possiamo fare a meno di segnalare la nostra intervista a Radio Lippa sull’anniversario della guerra di Corea (potete trovarla anche dopo sul podcast, comunque, a fiamme spente, ecco il link), e come non ricordare a tutti che siamo a Pulline Lanosa nella libreria Libr’aria a presentare il nostro libro o che proprio stamattina abbiamo detto la nostra in tv sul ballottaggio a Sassari? I social ci costringono a un’immagine pubblica che pure noi stessi sappiamo essere ridicola, ma vivono sul tacito accordo per cui il nostro tratto più imbarazzante e autopromozionale verrà taciuto in cambio di altrettanta riservatezza.
Il punto è che quando ho cominciato a usare i social – ma non credo solamente io – vivevo l’illusione (stupida) di aver trovato un posto dove il mio codice fosse condiviso. Leggevo gli altri e potevo riconoscere quel codice. Potevo fare certe battute sapendo che qualcuno ne avrebbe riso o meno, ma non pensavo che potevano offendersi. Il dubbio era: gli altri le avrebbero considerate divertenti? Le avrebbero considerate intelligenti? O, quantomeno, interessanti? Offensive no. Non volevano esserlo, come potevano diventarlo? Il tweet alla base de I giustizieri della rete è il modello perfetto della trasformazione: (“Sto andando in Africa. Spero di non prendere l’AIDS. Sto scherzando. Sono bianca!”) una battuta sui luoghi comuni che diventa una battuta razzista. Valeva lo stesso per molti. Era come stare in un club. Credevamo, insomma, di essere tra amici anche quando quegli amici non li avevamo mai visti. Ma in breve non è stato più così.
Invece nelle chat private ho recuperato quello spirito. Ne ho un’altra in cui condividiamo messaggi di sedicenti guru dell’internet italiano, quelli che spaziano dalla politica alla navigazione alla gestione strategica di grandi gruppi industriali con la stessa sicurezza. (Di solito sono gli stessi che, prima, si struggono per la fine del principio di autorevolezza e poi, nel tweet successivo, parlano di un argomento a muzzo). Invece di perdere tempo con i tweet che dicono e non dicono, invece di provare a ingaggiare conversazioni che non hanno mai né capo né coda, invece di perdersi in quei litigi da dodici botta e risposta (i peggiori sono quelli in cui i protagonisti retwittano le proprie risposte per mostrare quanto ci sanno fare negli scambi sferzanti) quanto è più salutare mandarsi un link e commentare “ehi, guardate il nostro campione che oggi polemizza con Philip Roth”. Una volta si chiamava “lurkare”, ma, a me sembra, che ci sia qualcosa in più del lurkare. Perché c’è, di nuovo, un divertimento, un modo per sentirsi tra chi si capisce – ecco cos’era, parlare sapendo di essere capiti – che assomiglia più ai primi social che al lurkare.
Ho ancora un gruppo in cui ci segnaliamo notizie sulla Campania. Sulla base del principio del vittimismo campano e cioè “queste cose succedono ovunque ma fanno notizia solo quando succedono qua”, ci scambiamo notizie sulle varie malefatte che i campani fanno in giro per il mondo. Io sono campano e so bene che i campani detestano che chiunque faccia battute sulla Campania. Tranne loro. A loro stranamente è concesso dire qualsiasi cosa: possono dire che amano abbandonare i materassi in campagna o che la diossina conferisca un inconfondibile sapore alla mozzarella, ma se la stessa battuta la facesse uno di Verona sarebbe un mostro razzista. Questo meccanismo si è imposto su scala planetaria. Facciamo tutti parte di una minoranza vilipesa e siamo tutti iper-sensibili a qualsiasi sollecitazione. (Facendo, peraltro, un grosso danno alle minoranza davvero vilipese perché non si riesce più a fare distinzione fra vera e falsa discriminazione. E, per contrasto, dando modo anche ai peggiori oscurantisti di atteggiarsi spesso a vittime). È un meccanismo che in tanti riconosciamo come inutile, ma non troviamo un modo per venirne fuori. Stretti tra ipocrisia e volgarità. Ammiro chi prova ancora a trasformare quei luoghi in luoghi in cui l’ironia o il sarcasmo possano essere condivisi, ma io temo non sia così. Preferisco rifugiarmi nella comodità del mio codice. Se oggi Corrado Guzzanti\Pippo Chennedy apparisse in tv ne chiederebbero la rimozione come se stesse prendendo in giro i napoletani…
C’è, però, allo stesso tempo un altro aspetto per cui i social assomigliano tuttora a un circolo anche se in una maniera, probabilmente, deteriore. Sono, infatti, per molti una grande bolla professionale in cui qualsiasi cosa dici rischia di inimicarti qualcuno. Perché per molti sono già il lavoro. E dunque, fosse anche solo per quieto vivere, la chat privata ti dà la possibilità di sfogare quella tua idiosincrasia in maniera sana e rilassata. Come quando te ne vai in sala caffè a parlare male del capo o di un tuo collega.
A tratti potrebbe apparire una cosa da stronzi, ma, in realtà, è il miglior modo che esiste per fare l’esatto opposto e non essere mai stronzi. Io, nelle chat private, capisco le idiosincrasie, le incazzature, le polemiche e le battute di tutti. Anche quelle sbagliate. Soprattutto quelle sbagliate. Perché c’è la fiducia che in pubblico non c’è più. Mi sento immediatamente accogliente. E per questo tutte le frustrazioni, tutte le volte che ripensate a un commento appena letto e vi dite, basta, adesso rispondo, sì gli scrivo così, è quello che si merita, lo capirà anche lui, perché mi daranno ragione, ecco, un bel “condividi in privato su Whatsapp” e tutto passa.