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Cosa cerchiamo in Marie Kondo
La serie Netflix Tidying up with Marie Kondo racconta molto di più di come riorganizzare la nostra casa.
Facciamo ordine con Marie Kondo è una serie Netflix di otto puntate
Dopo pochi minuti dell’episodio 1 di Tidying up with Marie Kondo, commentiamo, ingenui: «Non è poi tanto disordinata, questa casa». Ci eravamo avvicinati con la frivolezza di chi comincia Operazione Nas, con la curiosità di chi spia cosa mangiano i camionisti, e confrontavamo istintivamente il format con SOS Tata, e Cucine da Incubo: dopotutto, si trattava di girare per le case a organizzare armadi, no? Ma, come recita quella famosa battuta di Saving Mr Banks: «Se credete che Mary Poppins sia entrata in quella casa per i bambini, allora non avete capito niente». E se pensate che Marie sia qui per piegare i jeans in triangolini, siete dei poveri stolti.
Marie Kondo non c’entra niente con Cannavacciuolo, lei è la vera Mary Poppins 2, mica quell’impostora che è al cinema. Cannavacciuolo e Tata Lucia propongono una soluzione a un problema circoscritto, per quanto cruciale, della nostra vita, il restyling del ristorante, l’educazione dei bambini. Ma, nonostante i tentativi di creare catarsi, per esempio portando i camerieri a tirare con l’arco, niente è paragonabile a quello che succede in presenza di questo yōkai vestito di bianche sete catarifrangenti, al cospetto del quale genitori inesperti, giovani coppie gay, vedove, cani e marmocchi stregati si inginocchiano sui tappeti e ringraziano convinti la loro casa. E poco ci manca che anche tu, dissacrante telespettatore onnivoro che passi da Bird Box a Marie Kondo senza pausa gabinetto, ti metta carponi e inizi a baciare il parquet sollevato dall’umido, come succedeva negli anni Ottanta ai bimbi impressionabili che rimanevano con le mani incollate da Giucas Casella.
E proprio lì, nella casa di famiglia dove incrociavo le mani guardando Fantastico, poco tempo fa ho ritrovato lo zaino delle superiori ancora fatto, con dentro tutto quel che mi servì per svolgere la terza prova di maturità, nel 2001. Provo un brivido di imbarazzo, all’idea che lei, il candido demone mietitore di mutande vecchie, aleggi sopra agli scatoloni del mio garage, tra cocci di palle di Natale e scatole dell’Atari. E un momento dopo, apprendo che no, lei non è iraconda come le ombre giapponesi di Lafcadio Hearn, lei non mi giudicherebbe, Marie non giudica. Lei, di fronte a una famiglia di afro-americani che tiene i vestiti in frigo, esclama, raggiante: “Oh, I love mess!” e giura che anche a casa sua a volte c’è una forchetta fuori posto, ma, con quella frangetta da ossessiva-compulsiva, non le crede nessuno.
Lei entra in casa tra mille inchini, con qualche umile scatola di scarpe sottobraccio, camuffata da problem-solver qualunque, e invece, dietro alla modesta espressione “tidying up”, nasconde un miscuglio sapientemente dosato di tutta la filosofia orientale che andiamo disperatamente iniettandoci tra una fattura e l’altra, e di quella spiritualità occidentale che fingiamo di rimpiangere leggendo l’Innominabile attuale di Calasso (per poi tornare alle solite stressanti occupazioni). Così, lentamente, filtrate attraverso la grazia della sua voce ultra-terrena, che farfuglia incomprensibili massime nipponiche, il pronto intervento Marie Kondo ci si rivela poco a poco una sorta di animismo dei mestoli, una meditazione delle pulizie, un kundalini dell’accumulatore seriale.
Se infatti siamo riusciti a mettere in discussione il capitalismo e, in tempi di sovranismo, perfino il concetto di democrazia, ciò che non riusciamo proprio a scrollarci di dosso è la nostra indole da compratori. Forse per un tic, interrompo a tratti la visione per scrollare Instagram, che mi propone, tra una foto e l’altra, un cappello di lana col buco per la coda di cavallo e un porta-merende con sopra la caption: OMG, I need this! Un’amica posta una story: «Perché mi sembra di aver bisogno di tutto quello che mi propone Instagram?». In quel momento, da vera Socrate contemporanea, Marie Kondo chiede ai suoi clienti di impilare sul letto tutti i vestiti della famiglia, e un attimo dopo, quelli, sentendosi in colpissima per la mole di roba collezionata, sono davvero lì a baciare i collant bucati prima di appoggiarli in uno scatolone come uccellini morenti, e noi ci ritroviamo davanti all’armadio, a accomiatarci commossi dal giaccone termico della zia che onestamente fa schifo anche per guidare il gatto delle nevi col buio.
Adesso Marie, che prima del suo best-seller serviva come sacerdotessa in un santuario shintoista, sta chiedendo di cullare ogni capo tra le mani come fosse vivo, di chiudere gli occhi, di sentire se sprigiona gioia (in inglese, “sparks joy”) e a quel punto di salutarlo con rispetto, o di piegarlo in modo arzigogolatissimo se si decide di conservarlo. D’un tratto, anche quelli che a yoga si sono sempre addormentati, sono disposti a coccolare la coperta di pile come un cucciolo di panda. In realtà, la sensazione di avere a che fare con una saggezza antica è più una speranza di noi occidentali senza dio, perché i due metodi del riordino, il Konmari di Marie Kondo e il Dan-sha-ri di Hideko Yamashita, si sono diffusi in Giappone solo nell’ultimo decennio e hanno una natura molto concreta: originano, oltre che dagli spazi abitativi minuscoli per cui il paese è noto, dalla crisi economica del 2008 e dalla conseguente necessità di ridurre i consumi, soprattutto tra i giovani. I due metodi sono molto simili, e si basano entrambi sulla cernita degli oggetti da conservare – intesa non come limitazione, ma come occasione di auto-conoscenza – in base al grado di gioia emanato dagli stessi, anziché al loro valore intrinseco o buono stato.
Da queste discipline tutto sommato pragmatiche, è nato anche lo stile del minimalismo giapponese, in cui mi imbattei per la prima volta guardando una puntata del Testimone su alcuni bellissimi ragazzi giapponesi che non hanno mai più di un jeans e di una tazza per volta. Tuttavia, rimasi un po’ scettica: in fondo, possedere una sola sciarpa può anche significare buttare via la precedente prima che infeltrisca, e ridurre l’intera questione al principio estetico dello spazio vuoto. Oggi, nel mondo, si producono più vestiti di quelli che servono. Se il metodo Konmari dovrebbe, teoricamente, rimettere in circolo abiti ricchi di senso, ma pronti a staccarsi dal padrone, noi Occidentali siamo già riusciti a farne un’altra questione di consumismo, perché, negli Stati Uniti, da quando è in onda lo show, c’è il boom di vendita di scatole per riordinare. Abbiamo preso possesso a modo nostro del fenomeno, per esempio coniando un sacco di meme buffi, del tipo: ops, mentre facevo le pulizie ho gettato Marie! Negli Stati Uniti, la parola kondo è diventata un verbo coniugabile, e Marie, annusando l’affare, si è trasferita coi figli in America (con le conseguenze enormi che può aver avuto un trasloco simile sulla sua mania per l’ordine).
Ho la sensazione che, nell’appropriarci del Konmari, ne abbiamo fatto una questione tutta nostra, ovvero non una risposta a una crisi materiale esterna, ma alla nostra crisi spirituale interiore. Una questione legata alla nostra incapacità di prendere decisioni da adulti, al nostro senso di colpa per il consumo sfrenato, alla depressione, a tutte le dottrine che i Californiani si sono inventati dagli anni Settanta in poi tra una surfata e l’altra, per combattere il vuoto lasciato dalla religione e dalle ideologie. Se il Konmari, nella sua forma modaiola, in Giappone, è stato preso come un decalogo che mette insieme il buon senso della massaia al kawaii delle celebrities, il manuale di Kondo da noi è stato presentato come un libro “che libera gli spazi e la mente di manager e professionisti.” In un certo senso, mi pare che la nostra appropriazione tendenziosa centri anche con la situazione della donna in Occidente, sempre al massimo sul lavoro, perfetta coi figli, e regnante su case da rivista.
La madre del Dan-Sha-ri ci dice che la parola inglese “clutter” significa disseminazione, scompiglio, avere la testa piena di informazioni inutili, trovarsi in uno stato di confusione, e fa riferimento a un disordine delle stanze e anche del cuore. È qui che abbocchiamo noi. Quello che stiamo cercando sono altre parole, trascendenti, per spiegare il disordine che ci regna in testa: quella cosa per cui mentre guardiamo la tv abbiamo bisogno anche di seguire un feed, e mentre facciamo un viaggio abbiamo l’urgenza di postarne la prova. È forse per questo che quando Marie ci spiega il concetto di komono, definendoli “tutto ciò che non è libri, vestiti, documenti, cioè il miscellaneo”, noi ci sentiamo illuminati dal divino e siamo sicuri che si tratti di una parola intraducibile che può spiegare l’intasamento dell’anima, mentre lei parlava, alla fin fine, di accessori e come stiparli.
Possediamo il concetto di downsizing, che è molto simile all’idea di sbarazzarsi del superfluo, ma mentre questo termine è mutuato dal gergo aziendale, e fa riferimento al taglio del personale per fronteggiare una crisi economica, siamo invece alla ricerca di parole esoteriche per un downsizing legato a un vuoto dello spirito. Ed eccoci tutti in ginocchio ad ascoltare quei gorgoglianti arigato-gozaimasu, pronti a risvegliare i nostri libri bussando dolcemente sulle copertine, e a benedire i nostri calzini, sperando che questi contengano un piccolo demone, pronto a connettersi con la nostra solitudine, e a perdonarci per esserci creduti onnipotenti.