Attualità | Cronaca

Davanti alle fiamme di Notre Dame

Sull'incendio che il 15 aprile ha avvolto la cattedrale gotica di Parigi e su quanto la distruzione può essere sublime.

di Davide Coppo

L'incendio devasta il tetto della cattedrale di Notre-Dame di Parigi il 15 aprile 2019 (foto di Francois Guillot/Afp/Getty Images)

Mentre la cattedrale di Notre Dame era ancora in fiamme, il messaggio di Barack Obama, ex presidente degli Stati Uniti, ricordava le tipiche, gentili e fredde comunicazioni ufficiali e diplomatiche che seguono un lutto: «Siamo vicini ai francesi in questo momento di dolore», scriveva. Decontestualizzando il tweet dallo sfondo di una chiesa vecchia di otto secoli che brucia e lentamente crolla a pezzi in un giorno di primavera del 2019, sembrerebbe uno dei tipici, forse sentiti e certamente standardizzati messaggi diffusi nelle prime ore di un attacco all’Occidente, di una tragedia umanitaria. L’incendio a Notre Dame de Paris, però, non ha fatto registrare nessuna vittima e nessun colpevole doloso. Nel frattempo, centinaia di francesi presumibilmente cattolici si radunavano in alcune piazze e vie intorno alla cattedrale e venivano ripresi dai telegiornali mentre cantavano inni religiosi per salvare tramite divinità la struttura portante della costruzione, avvolta da anidride carbonica e monossido di carbonio.

La sera del 15 aprile 2019, mentre la cattedrale di Notre Dame de Paris rischiava di crollare 900 anni dopo essere stata inaugurata, mi sono – io come molti – sentito inizialmente catapultato in un secondo Undici settembre. Il compositore Karlheinz Stockhausen, meno di una settimana dopo l’attacco alle Torri Gemelle, quasi 20 anni prima, descrisse l’avvenimento come «la più grande opera d’arte dell’universo». Venne attaccato più o meno da chiunque, morì pochi mesi dopo e probabilmente la sua memoria faticherà ancora alcuni anni prima di ripulirsi completamente dallo scandalo. Eppure non disse nulla di scandaloso: «Non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina / ma la distanza da una simile sorte», scriveva Lucrezio, nel Mille avanti Cristo, nel De Rerum Natura.

Aggiornando compulsivamente i siti di news e i social network per avere notizie dall’incendio di Notre Dame, mi sono – io come molti – ritrovato a ricordare i dettagli del più spettacolare attentato all’Occidente dalla fine della Seconda guerra mondiale: «L’evento assoluto», lo definiva Baudrillard, che aveva spezzato «lo sciopero degli eventi» degli anni Novanta. Le cose, tuttavia, sono oggi diverse, almeno da un certo punto di vista: negli ultimi dieci anni non abbiamo purtroppo assistito ad alcuno sciopero degli eventi in Occidente – tutt’altro – e la violenza e il profumo di apocalisse sono più vicine che mai: nelle guerre in Siria e Yemen, nelle armi chimiche, nelle crisi migratorie, nella nascita dell’Isis, nello spettro di una nuova recessione globale, nei cambiamenti climatici.

Le fiamme e il fumo salgono dalla guglia e dal tetto della cattedrale gotica, sulla quale erano in corso lavori di ristrutturazione (foto di Francois Guillot/Afp/Getty Images)

Nonostante questi distinguo, la fascinazione che ci trasmette Notre Dame de Paris in fiamme non è dissimile da quella sollevata dall’Undici settembre, e ha tratti in comune, quali che siano gli architetti o i colpevoli, con altre tragedie paesaggistiche moderne: sono sentimenti misti di repulsione e ipnosi, come quelli immersi negli attentati all’hotel Taj Mahal a Mumbai nel 2008, negli tsunami sulle coste di Giappone, Sri Lanka e Indonesia nell’ultimo decennio, nelle sparatorie senza pietà al Bataclan, nei terremoti in centro Italia. Non è necessario sentirsi in colpa, è un sentimento normale che riguarda soltanto chi sta fuori: il sublime si incontra a patto che «non susciti la paura d’un pericolo reale», scriveva Kant nella Critica del Giudizio. E non ci affascina soltanto l’immagine della distruzione, ma ancora di più quella della distruzione per mezzo di fuoco. È qualcosa di religioso, come dimostrano i fedeli che cantano inni contro il monossido di carbonio, e ancestrale. Ne La nube purpurea di M.P. Shiel, l’ultimo uomo rimasto sulla Terra trova finalmente uno scopo di sopravvivenza nel bruciare i manufatti umani rimasti sul pianeta: «Incendiare città è diventato ormai per me un vizio che mi incatena – e mi degrada – più di quanto l’oppio possa incatenare e degradare il fumatore; è il mio bisogno, la mia acquavite, il mio baccanale, il mio peccato segreto. Ho bruciato Calcutta, Pechino e San Francisco […] Come il Leviatano che gioca nel mare, così ho gozzovigliato sulla Terra».

L’incendio del quindici aprile verrà ricordato nei libri di storia a lungo – e in alcuni romanzi fortunati per alcuni anni. È stato anche e ovviamente simbolico: da un lato Notre Dame de Paris è una delle costruzioni che, in quanto simbolo, soprassiede e protegge una comune idea di Europa, Occidente e Cristianità, dall’altro è un patrimonio intimo non soltanto francese ma di centinaia di migliaia di persone che hanno – sentono di avere – un frammento di storia individuale consumata davanti a quella facciata. Ci colpisce la sua parziale distruzione perché tendiamo ad associare, oggi, i monumenti millenari all’indistruttibilità e all’immobilismo delle montagne, dei deserti, della crosta terrestre. Perché viviamo in un mondo che si basa sul gettare via – cambiamo telefono, orologio, scarpe, occhiali, in continuazione – ed è allo stesso tempo abituato all’indistruttibile artificiale – siamo consci dell’eterna vita della plastica e dei suoi derivati, che ci passano in mano ogni giorno in centinaia di rappresentazioni. Ci colpisce anche il caso o l’errore o la disgrazia, l’imprevedibilità degli eventi, l’impotenza davanti al fuoco. La storia di Notre Dame, tuttavia, non finisce il quindici aprile 2019: la guglia crollata era “soltanto” figlia di un restauro ottocentesco, la Rose du Midi – il rosone più famoso al mondo – è intatto, i muri reggono e continueranno a reggere, a essere testimoni dei secoli trascorsi, come ci piace pensare, compreso il Grande Incendio del 2019, come forse lo chiameranno tra qualche decennio.