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Il Salento, i Sud Sound System e la storia di una rinascita

L'undicesima tappa del nostro viaggio lungo le coste della Penisola è un incontro con la storica voce della band salentina che ha fatto per il Salento di più ogni politica turistica.

12 Agosto 2020

Nell’anno delle vacanze autarchiche e distanziate, che nessuno ha ancora capito se saranno veramente vacanze, sulle orme di illustri predecessori letterari (Pasolini in primis), abbiamo deciso di raccontare questa strana estate italiana con un viaggio a tappe lungo le spiagge e i luoghi più famosi della costa della Penisola, in un periplo che partirà dalla Liguria e arriverà al Friuli Venezia Giulia. Qui le puntate precedenti.

La pietra bianca, gli ulivi secolari, l’acqua, che devi andarla a prendere in profondità, perché qui la terra è arida. E poi il vento, non sai mai se sarà tramontana o scirocco. E quella lentezza secolare, che più scendi verso sud più diventa uno stato d’animo con cui devi fare i conti. Nonostante le apparenze è sempre stata una terra dura, il Salento, “spaccata dal sole e dalla solitudine”, per lungo tempo solo un tacco esotico raffigurato in una carta geografica. Poi, improvvisamente, all’inizio degli anni Novanta, quella che l’antropologo Ernesto De Martino, nel suo celebre viaggio del ’59, aveva ribattezzato come “la terra del rimorso” si è trasformata in un terra dell’edonismo, dando il via a una rinascita economica e culturale che ha da tempo valicato i confini nazionali.

Per cercare di saperne di più sulle ragioni di quel cambiamento vado a trovare Nandu Popu (vero nome Fernando Blasi), storica voce dei Sud Sound System, la band salentina che ha fatto per il Salento di più ogni politica turistica, riuscendo nell’impresa di sdoganare il dialetto, attraverso un mix di ritmi giamaicani e sonorità locali, e soprattutto di rovesciare un’antica convenzione, per la verità cara anche a una certa borghesia meridionalista, secondo la quale per emanciparsi dalla marginalità del sud fosse necessario utilizzare la lingua italiana.

L’appuntamento è alla masseria Monache, tra Brindisi e Lecce, a due passi dal mare, una di quelle zone dove ancora negli anni Ottanta comandava la Sacra Corona Unita e i ragazzi erano costretti a scappare. La scelta era tra nascondersi nelle campagne o fuggire al nord, seguendo un classico percorso migratorio. «Abbiamo solo risvegliato una consapevolezza, quando abbiamo iniziato sembrava quasi che il Salento non esistesse, ci si vergognava di essere salentini. Modugno è cresciuto qui accanto ma lo facevano cantare in siciliano», racconta Nando davanti a un bicchiere di rosato. Cerca di non darlo a vedere, ma l’orgoglio salentino lo percepisci da ogni singola parola. Ogni tanto passa qualcuno, si ferma per un saluto e se ne va, come a riconoscergli un ruolo di antico capo banda, o qualcosa del genere. «Pensa al colore della pietra bianca, quando incontra la luce crea suggestioni uniche, in fondo è un po’ anche la magia del barocco. Nulla avviene per caso qui in Salento, ma si sviluppa in un rapporto tra essere umano e territorio. Prendi la pianura padana, è un dei posti più produttivi d’Europa ma non dispone di queste risorse naturali. Qui la produzione è al contrario.  Da noi diventi – lasciami passare una brutta espressione – estroiettatore di un territorio». Volgarmente tradotto nel titolo di uno loro brani più famosi, Le radici ca tieni.

Gli chiedo se si possa individuare un momento storico, o una data anche simbolica, a cui far risalire l’inizio di questa rinascita. Ma è evidente dalla mia domanda, e dalla espressioni di tutti gli altri presenti, che sono l’unico a non conoscere questa storia. La parola magica è Mantagnata, l’anno da ricordare il 1992. «Occupammo una masseria vicino San Foca, la Mantagnata si chiamava, 15-20 chilometri a sud da Lecce verso l’Adriatico, un’area verde di fronte al mare. Arrivarono gli amici, i fuorisede da Roma, Milano e Bologna. Poi i centri sociali del nord, dove molti erano in realtà terroni, qui da noi  non c’erano semplicemente perché all’epoca ti sparavano. Ad agosto eravamo già 2mila, fu la nostra Woodstock, mare, musica e concerti tutte le sere». Le band improvvisavano, le feste non si contavano, i ragazzi imparavano a buttar giù rime su basi già pronte, l’euforia era contagiosa. La Giamaica d’Italia stava prendendo forma. Prima tra le spiagge assolate del leccese, come Torre dell’Orso e San Foca, e tra le marine di Melendugno, poi, neanche troppo lentamente, lungo tutto lo Ionio e l’Adriatico.

Eravamo dei malati, senza essere morsi da un ragno. Il nostro male era la paura di scomparire dal punto di vista etnico, di perdere la nostra identità.

«È stata una pietra, è partito tutto da li», ci tiene a sottolineare Nando, «l’anno dopo sgombrarono la masseria ma i ragazzi tornarono in Salento e a loro se ne aggiunsero molti altri, grazie al passaparola. I campeggi, che prima vedevano cento villeggianti in tutta la stagione se erano fortunati, facevano il tutto esaurito». Presto si aggiunsero anche i musicisti della pizzica, fino ad allora ghettizzati dentro un recinto di emarginazione, attirati dai nipotini che utilizzavano il dialetto per fare questa strana musica chiamata raggamuffin. «Suonavamo assieme, nascevamo jam sincretiche dove si mischiava la base raggamuffin con il tamburello. Era una festa. Eravamo dei malati, senza essere morsi da un ragno. Il nostro male era la paura di scomparire dal punto di vista etnico, di perdere la nostra identità».

È in quel periodo che un antropologo francese, Georges Lapidasse, e un ricercatore dell’università del Salento, Piero Fumarola, si misero a studiare i riti collettivi moderni, intuendo che nel modo di fare musica di realtà come i Sud Sound System si potevano ritrovare antichi retaggi. Nasce cosi l’espressione tarantamuffin, quasi a suggellare l’inizio di questa rinascita salentina. Come ha scritto Pierfrancesco Pacoda nel libro Salento amore mio, «le radici del rimorso dialogano con la cultura giamaicana dell’edonismo, trasformando le radici in oggetto di consumo». Non si può comprendere il successo planetario della Notte della Taranta, che ogni estate porta a Melpignano oltre centomila curiosi, e tutto il suo surrogato turistico, se non si parte da qui: la Mantagnata, le feste in masserie diroccate, i ritmi giamaicani, la cultura locale, e il desiderio di non sentirsi più emarginati.

Sarebbe interessante sapere se dopo trent’anni di euforia musicale questa vitalità sia in parte venuta meno. «Il Salento è ancora una terra ricchissima, ma non c’e più il mercato, si è persa l’industria discografica, oggi per avere successo più che un buon testo devi avere dietro una casa di moda, come abbiamo visto a Sanremo. Ma la musica da queste parti resta il volano dell’economia». I Sud Sound System ora vanno nelle scuole a raccontare la loro esperienza, provando a convincere i ragazzi che andarsene non è sempre la scelta giusta da fare. «Cerchiamo i restituire al territorio quello che il territorio ci ha dato». Con un unico rimpianto. «Mi sarebbe piaciuto se questa esperienza musicale avesse avuto un seguito scientifico, per capire come la musica può aiutare le persone. Sono molti gli studi che vanno in questa direzione, che mostrano ad esempio quali accordi procurino sensazioni di benessere. Ma non siamo ancora riusciti a trovare una controparte istituzionale». Cercasi un nuovo Ernesto De Martino.

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