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I nuovi formati nel futuro dei giornali

A che punto siamo con le espansioni dei media? Tra newsletter, podcast ed eventi, alcuni casi studio interessanti.

di Studio

Due cover a confronto: quella di agosto 2018 di Vanity Fair e quella di febbraio 2019 di Elle Uk: entrambe con Michelle Williams in Louis Vuitton

Leggere una newsletter, ascoltare un podcast, partecipare a un festival della più svariata natura sono esperienze alle quali siamo abituati e caratterizzano oramai il consumo culturale di molte persone. I formati digitali e fisici dove si sperimenta oggi il giornalismo – di servizio, di opinione, di inchiesta – sono le espansioni naturali dell’identità di molti media che nascono cartacei e rappresentano, per inciso, le migliori possibilità che essi sopravvivano. Ora che il modello legato al traffico sta dimostrando tutti i suoi limiti e che la maggior parte dei giornali punta con decisione (o almeno, ci prova) al paywall e alla personalizzazione, considerare quelle espansioni non come accessorie ma bensì centrali al discorso è un interessante cambio di prospettiva. Spesso richiedono un grosso lavoro di gestazione e, in termini di resa pubblicitaria, possono rivelarsi più difficili da monetizzare alla vecchia maniera, cioè appiccicandoci sopra una qualsivoglia pubblicità. Eppure, sono l’ultimo scampolo di fidelizzazione genuina che resta in tempi di news gratuite e tecnologie (per certi versi utilissime) di machine-learning.

Newsletter e podcast
L’ultimo in ordine di tempo è stato Graydon Carter, ex direttore del Vanity Fair più di successo, quello americano. La sua newsletter, dedicata ai globetrotter che viaggiano in business (e non ai backpacker, come ha specificato al New York Times) si chiama AirMail e debutterà a giugno. A scriverla un team di giornalisti internazionali, selezionati da Carter e da Alessandra Stanley, già reporter e critica del Nyt: l’intenzione è quella di intercettare una comunità allargata, senza confini di nazionalità, che ha in comune un grande potere di spesa e un interesse per le questioni del mondo. Ogni edizione della newsletter, che arriverà di sabato, avrà un solo sponsor. Carter e Stanley, due esperti giornalisti con una lunga carriera alle spalle, sanno che è un modello in cui vale la pena di investire: lo dimostra il successo (per citarne uno, ma ci sarebbero molti altri esempi) di prodotti editoriali come the Skimm, una delle prime newsletter a targetizzare l’attualità al femminile, ma anche quello dei podcast. Si pensi a Serial, ad esempio, e al modo in cui ha radicalmente cambiato il panorama di riferimento.

La direttrice di Teen Vogue Lindsay Peoples Wagner durante il Teen Vogue Summit che si è tenuto a dicembre a Los Angeles (Foto di Alison Buck/Getty Images per Teen Vogue)

Eventi
Come il Met Gala di Vogue Us insegna, personificare un giornale in un evento fisico è allo stesso tempo una fonte alternativa di guadagno, un consolidamento del proprio status e, in alcuni casi, un momento di incontro e confronto con i propri lettori. Festival culturali, talk e rassegne non sono mai stati così popolari: li organizzano ormai moltissimi giornali, dal New Yorker a Business of Fashion, da Teen Vogue al New York Times. Cosa determina il successo di queste iniziative? L’offerta della programmazione, attorno alla quale si profilano oggi vecchie e nuove professionalità, che si evolvono al passo dei cambiamenti in atto. È il caso dell’agenzia Special Projects, che ha una base a New York e una a Los Angeles. Fondata nel 2016 da Nicole Vecchiarelli e Andrea Olivieri, due 43enni con una lunga esperienza come booker nei giornali patinati, si occupa di piazzare la celebrity, l’influencer o l’intellettuale di turno all’evento giusto, oltre a fare talent scouting. Hanno organizzato gli eventi di The Cut, lo streaming del nuovo album di Kanye West in Wyoming e i primi incontri di The Wing, lo spazio di co-working dedicato solo alle donne nato a New York, che ora si sta espandendo in America ed Europa. Una volta entrambe lavoravano al servizio fotografico di copertina, oggi sono passate agli eventi: prima di lanciarsi in quest’avventura si sono dette «Abbiamo quasi quarant’anni, abbiamo una lunga parte di carriera ancora davanti. Non possiamo rimanere sul Titanic fino a che non affonda». Il Titanic, manco a dirlo, erano i giornali di carta.

Contenuti sponsorizzati
Il branded content, poi, è la conclusione logica del discorso fatto finora: se i contenuti si fanno sempre più raffinati, sviluppati per un’audience già potenzialmente interessata, anche i publi-redazionali devono necessariamente cambiare volto. È un argomento spinoso: perché da una parte rende sempre più palese il collegamento che c’è sempre stato, soprattutto in una determinata categoria di giornali, tra gli investitori e le scelte redazionali, dall’altra mette a nudo tutti quei meccanismi di co-dipendenza forzata. Come uscire dall’impasse? Lavorando sulla scelta dei propri clienti e sull’educazione, tanto per cominciare, sia del lettore che dell’investitore stesso. Spesso della crisi dei giornali si dice molti fra quelli che si occupano di marketing editoriale applicano ad oltranza le vecchie regole della carta, o quelle invecchiate malissimo delle impression e del traffico, per vendere gli spazi pubblicitari. Sulla prima copertina del nuovo Vanity Fair di Radhika Jones, lo scorso agosto, c’era Michelle Williams in Louis Vuitton scattata da Collier Schorr. L’immagine ricordava molto la campagna del marchio scattata dalla stessa Schorr, mentre Williams è una delle testimonial Louis Vuitton: le parti in causa hanno detto che si è trattato di un caso, ma l’intersezione delle cose fa riflettere. Tanto più se si guarda alla copertina di Elle Uk di questo mese: sempre Louis Vuitton, sempre Michelle Williams, in una delle cover fotografata insieme al direttore creativo Nicolas Ghesquière. Non necessariamente un cambiamento negativo: in fondo, se ne potrebbe guadagnare in trasparenza. Che nell’epoca del consumo dell’autenticità, è probabilmente una delle migliori merci sul mercato.