Cultura | Liste
Le cose migliori viste nel 2019
I film e le serie tv dell'anno secondo la redazione di Studio.
Ci rendiamo perfettamente conto che selezionare “le cose viste” è un’approssimazione e che la scelta di mettere insieme film e serie tv può essere discutibile, ma nonostante la poca ortodossia del metodo la consideriamo adatta a raccontare l’approccio con cui oggi, in tanti, ci sediamo sul divano di casa o sulla poltrona di un cinema. Un approccio che è sempre più ibrido e che si muove tra più piattaforme e tra più possibilità, non solo di catalogo: dove guardo il film di Scorsese? Dove quello di Allen? Dove la serie co-prodotta da Hbo e Rai Fiction? Quest’anno studi cinematografici e servizi di streaming hanno stretto accordi e lanciato i propri canali, cercando di adeguarsi al modo in cui si consumiamo, alle soglie del 2020, i prodotti audiovisivi. Abbiamo parlato di serializzazione del cinema e di serie tv che facevano prima a essere un film, ci siamo lamentati di quante cose, forse troppe, alla fine non hanno tenuto fede all’hype e di quante altre avremmo voluto vedere, senza trovare il tempo di farlo. Abbiamo lasciato fuori molte cose che avrebbero meritato (Watchmen, per esempio, The Irishman, Chernobyl e Once Upon a Time in… Hollywood), ma le segnalazioni sono personali e hanno un limite: massimo tre “cose” ciascuno, quelle che abbiamo amato di più.
L’imperativo è non dormire
Aspettative spesso deluse (Avengers, Tarantino) e non particolarmente florido di cose imperdibili, il 2019 è stato soprattutto un anno in cui ho cercato di non addormentarmi davanti a uno schermo, che fosse piccolo o grande. È probabile allora che le cose che mi sono veramente piaciute siano anche quelle che ho finito. A partire dal Maradona di Asif Kapadia esaltante forse per motivi personali – non sono mai stato tifoso del Napoli, ho però vissuto la Napoli di quegli anni ed è stato vertiginoso riviverla – ma il documentario credo sia potente per chiunque. È costruito quasi integralmente con spezzoni mai visti, girati da due video-operatori assoldati dall’agente del calciatore che si ritenevano persi, e che sono stati cercati e ritrovati in un posto imprecisato della provincia di Napoli: vi si mostra la vita al limite di un campione fuori dall’ordinario, ma soprattutto si chiarisce la parabola della sua permanenza a Napoli, stritolata dall’abbraccio soffocante della città, mentre il presente trova spazio solo attraverso le voci di Maradona e di altri protagonisti intervistati dal regista. L’unica serie che mi ha fatto appassionare è stata Succession (prima e seconda stagione), bellissima, cattivissima, con solo personaggi tremendi che ti stanno sulle palle, ma è esattamente il prototipo di quello a cui la serialità televisiva vorrei che aspirasse: basta cose astratte e astruse che ti sembrano favolose per cinque minuti ma poi non hai voglia di seguire, meglio una classica saga famigliare su ricchezza e potere, che sembra ricalcare non solo quella da cui probabilmente è ispirata (i Murdoch), ma anche la sua omologa italiana (i De Benedetti), esplosa proprio in queste settimane. Al cinema il film che mi ha fatto più divertire è Jumanji – Next Level, un incredibile ritorno al passato non tanto perché è figlio del suo progenitore del ’95, quanto perché, unendo commedia e azione, in un’epoca in tutto è categorizzato per età, riporta nelle sale l’idea di un cinema trasversale che a diversi livelli può piacere a bambini, ragazzi, adulti (Ritorno al futuro, Mamma ho perso l’aereo, Indiana Jones ovviamente) ed ecco, non mi ha fatto addormentare. (Cristiano de Majo)
Personaggi che fanno schifo
Quest’anno ho visto davvero un sacco di cose, soprattutto serie tv, ma ho anche cercato di andare spesso al cinema, imponendomi, quando il film che volevo vedere era disponibile sia in streaming che al cinema, di scegliere sempre la seconda opzione (senso di colpa Millennial, si chiama). Sulla carta, il mio evento cinematografico dell’anno doveva essere Joker, che ho visto all’Arcadia di Melzo dove vedo tutti i film di Batman da quando abito a Milano: è una tradizione fra amici, riserviamo Melzo solo a determinati regist*. Alla fine, però, quel film lì mi ha lasciata piuttosto indifferente e l’evento è diventato Parasite, che ho visto in un cinema scalcagnato vicino casa, con uno schermo piccolissimo e la testa del signore seduto davanti a me a rompere l’inquadratura per tutto il tempo. Parasite usa l’ironia e l’arredamento minimalista per raccontare una cosa tanto semplice quanto brutale, l’ineguaglianza. «Anch’io sarei gentile se fossi ricca», dice a un certo punto la mamma della famiglia povera, e c’ha ragione. Non sono affatto gentili, invece, i ricchi di Succession, la serie tv che più ho amato quest’anno. Anzi fanno proprio schifo, non hanno orizzonti morali se non una certa – smisurata – percezione di sé dovuta al fatto, beh, di essere ricchi. La mia terza cosa, poi, è Sex Education, che in questa brevissima lista di crudeltà è la boccata d’aria fresca, la serie per adolescenti-adulti che hanno più di trent’anni e pensano di cambiare il mondo con i loro “consumi” culturali. (Silvia Schirinzi)
All’inizio tutto sembra irrinunciabile
Ricordare ciò che avevo visto all’inizio del 2019 e riuscire a dargli un peso è quanto mai difficile, più o meno come scegliere. O forse è solo che all’inizio tutto sembra irrinunciabile e invece poi a rimanere davvero non sono che una manciata di storie e di facce. La seconda stagione di Fleabag è di certo una di queste. Al di là del personaggio, già brillante, è il suo evolvere, il suo diventare molto meno spigoloso a colpire. Al cinema, Parasite è riuscito a fare ciò che ormai sembra sempre più complicato: unire una storia avvincente con una narrazione comunque leggera e quasi comica, in più con un messaggio chiamiamolo pure sociale. Infine Unbelievable, miniserie Netflix tratta da una storia vera che racconta di uno stupratore seriale. Asciutto, disarmante, con ottime interpretazioni (su tutte quella Merritt Wever). Un pugno che lascia attoniti e che mi ha commosso perché mette davanti, se mai ce ne fosse bisogno, quanto ci sia ancora da fare per cambiare la mentalità delle persone in merito alla questione di genere. (Teresa Bellemo)
Serie sull’orlo di una crisi di nervi
Esistono serie tv e film che ci scavano dentro, suonando e risuonando nella testa come fossero un quartetto d’archi. È il caso della storia di Nadia Vulvokov, che in Russian Doll muore mille volte nel giorno del suo 36esimo compleanno. Una serie che ha l’aspetto di un videogioco nichilista. Con Nadia, ho trovato innumerevoli strade che avrei potuto percorrere, fantasmi che avrei dovuto affrontare. Arrivando al finale, marciando con lei verso il primo giorno di qualcosa di nuovo. È la capacità delle performance d’avanguardia, che interrogano chi rimane fuori a guardare. Accade con Phoebe Waller-Bridge quando ci rivolge una delle sue occhiate in Fleabag, insegnandoci a sdrammatizzare la complessità del mondo. «Questa è una storia d’amore», di una notte, di un prete, di noi e Dio. Una seconda stagione perfetta. Perché Fleabag lo siamo state tutte in almeno un frammento di giornata, con lo stomaco stretto in un nodo, e poi sciolto in una risata irrefrenabile, e ancora contratto in quell’incessante succedersi di farsa e tragedia della vita. Fleabag e Nadia, come donne sull’orlo di una crisi di nervi. Ed è proprio Pedro Almodòvar con Dolor y Gloria ad avermi donato il momento cinematografico migliore dell’anno. La summa della sua vita – rimaneggiata e assimilata – è stata come una rivelazione, sin dalla frase più bella: «Il cinema della mia infanzia sapeva di pipì. Di gelsomino, e di brezza estiva». Il regista spagnolo mi ha permesso di entrare in un posto che era chiuso a chiave. (Corinne Corci)
Che coraggio
Riguardando a pezzi i trailer o gli interi film che con pochi dubbi ho scelto per il podio delle cose migliori di quest’anno, riesco a vedere un filo rosso che connette le tre trame. Qualcosa che potrei descrivere come un “impeto per la vita”, qualcosa che ha a che fare con il coraggio. Il primo è Dolor y gloria di Pedro Almodovar, ricordi di infanzia e reazione alla depressione, un film totalmente psicoterapeutico, esteticamente fortissimo, in cui il protagonista che è poi il regista stesso si mette completamente a nudo e per cui ho pianto, penso, dall’inizio alla fine. Poi Maradona di Asif Kapadia, altra storia di una vita inquieta, quella di Diego Armando, girato solo con immagini di repertorio e che mostra – come Almodovar – il dolore e la gloria, l’esaltazione del Mondiale vinto con l’Argentina e la disperazione a cui viene portato dalla fama e da se stesso. Infine, Atlantique, in cui il coraggio è centrale: l’Africa finalmente raccontata in un festival europeo (Cannes) da una regista che con l’Africa ha molto a che fare, senza i cliché della disperazione o della guerra spietatissima, ma che mostra i lati meno scontati, qui in questo continente pieno di giudizi, su migrazioni, amori, morti, spiritualità. Un viaggio in un altro mondo attraverso i sentimenti, protagonisti di tutti questi film. (Davide Coppo)
Different class
I tre film che ho scelto per riassumere il 2019 hanno una cosa in comune: tutti e tre esplorano con la semplicità di una parabola, ma in modo ogni volta diverso, le differenze di classe. Il film-evento dell’anno, Joker, non mi è piaciuto (all’uscita dal cinema l’ho giudicato stereotipato e bidimensionale) ma in qualche modo è riuscito a colpire in profondità, visto che mi ritrovo a ripensarci più spesso di quanto vorrei, e inizio perfino a provare uno strano desiderio di rivederlo. Tutto merito del protagonista: se l’outsider raccontato da Todd Phillips risplende e seduce è solo grazie a Joaquin Phoenix. Parasite, decisamente più raffinato e contorto, è una meraviglia per gli occhi e per la mente: si resta incantati di fronte alla casa dei ricchi (e stupisce scoprire che non si tratta di una casa realmente esistente, ma di una scenografia), ma anche dalla metafora delle scale, dall’atmosfera continuamente sospesa tra il comico e il grottesco e i tantissimi simboli che spuntano ovunque. E poi il mio preferito, Martin Eden. Come Joker, il film si regge sul talento dell’attore protagonista, un appassionato Luca Marinelli, che interpreta l’archetipo dell’artista tormentato, protagonista dell’omonimo romanzo di Jack London: autodidatta, povero, infervorato, innamorato di una giovane borghese, quando raggiunge finalmente la fama si ritrova a odiare proprio quella classe alta che si mostra finalmente pronta ad adottarlo. Finisce per sfinirsi di droga e rancore, ma ci regala un film struggente, anche grazie all’imprevedibilità dello stile del regista Pietro Marcello, che mescola frammenti di filmati d’archivio al ritratto di una Napoli astratta, sintetizzata. (Clara Mazzoleni)