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Avengers: Endgame e il cinema nell’era dello spoiler

Sul capitolo conclusivo di uno dei più grandi racconti popolari dei nostri tempi che ha già incassato più di 1 miliardo di dollari.

di Mattia Carzaniga

Un frame dal film ©Marvel Studios 2019

Dal treno dei fratelli Lumière ad oggi, Avengers: Endgame è il film che ha incassato di più nel suo primo weekend di programmazione: un miliardo e duecento milioni di dollari nel mondo, di cui trecentocinquanta negli Stati Uniti, diciassette e spicci in Italia. Son contenti tutti. È contenta la Disney, che ormai non ha rivali nemmeno sul mercato degli adulti: e mancano ancora Il re leone d’estate (rivolto principalmente ai bambini, ma pure i trenta-quarantenni nostalgici ci andranno in massa) e l’ultimo Star Wars a Natale, per citare solo i due titoli più grossi dell’anno in corso. Son contenti gli esercenti che tornano a respirare, pure i nostri: Checco Zalone ha rimandato il nuovo film alle Feste prossime, dunque è una fortuna che, dopo Freddie Mercury coi dentoni, siano arrivati gli eroi con la tutina. Son contenti gli spettatori, che ritrovano nel cinema un’esperienza condivisa: andare tutti insieme dentro una sala buia a vedere gente che corre-lotta-muore sullo schermo non è da annoverare definitivamente nel mucchio delle attività novecentesche come “mandare un fax” e “spedire una cartolina”. Non ancora, anche se manca poco.

Segniamoci questa data, questo weekend preciso. Per gli incassi stratosferici, certamente, ma soprattutto perché rappresenta la fine di un’epoca. Non solo la fine del cosiddetto MCU (Marvel Cinematic Universe) così come l’abbiamo conosciuto finora, vale a dire la lunga serie di titoli inaugurata da Iron Man nel 2008: ventitré in totale se contiamo pure Spider-Man: Far from Home, che uscirà a luglio ma non farà lo stesso sfracello di soldi. Ma, soprattutto, la fine di una modalità, quella sì più vicina al Novecento che al nuovo secolo, di intendere il cinema. La Infinity Saga, così è stata chiamata, è cominciata in un tempo in cui i film stavano davvero dentro i cinema. Certo, la crisi delle sale era già ampiamente partita; certo, la pirateria era uno sport diffuso tanto quanto oggi; certo, la pay-tv esisteva da un pezzo. Ma, da un punto di vista strettamente mentale, il cinema era ancora percepito come grande rito collettivo. Netflix era un servizio di streaming già attivo (proprio dal 2008, ironia della sorte), ma non lo sapeva ancora nessuno. Game of Thrones, per dire una cosa di cui oggi si parla al pari dei grandi colossi da sala tradizionale, non era ancora iniziato (bisognava aspettare il 2011).

Insieme alla nostalgia per un’era che tramonta, il successo di Avengers: Endgame ha per paradosso a che fare con il modo che abbiamo oggi di fruire e pensare gli audiovisivi. Semplificando al massimo: non si va al cinema per vedere una storia, si va al cinema per arginare la paura dello spoiler. Forse per questo le trame, di fatto, non esistono più. Possono esistere nelle serie, che hanno archi narrativi e temporali più ampi: ma pure lì, a ben guardare, spesso si allunga il brodo solo per arrivare alle dieci puntate canoniche. Nel cinema di largo consumo, sono diventate sempre più irrilevanti. Nel caso di Endgame, direte voi, era ben difficile organizzare una trama comprensibile e organica avendo l’obbligo di mettere insieme una quindicina di personaggi principali, più altrettanti comprimari: persino tre ore sono troppo poche. Forse è questo il motivo, più probabilmente gli sceneggiatori sanno benissimo cosa interessa oggi allo spettatore: i singoli momenti cruciali da svelare in un post su Facebook (anzi no, pena la pubblica lapidazione) valgono più di una storia compiuta. Per questo, nell’Avengers conclusivo, non si contano i buchi di sceneggiatura, gli sviluppi illogici, i continui cambi di registro prima del Gran Finale Drammatico (non posso svelare di più, anche se ormai l’avete visto tutti).

Se la trama non tiene – o, peggio, è solo un pretesto – al pubblico non importa. In molte recensioni, comunque entusiastiche, i critici statunitensi hanno parlato di “fan service”. È tutto ciò che non serve, appunto, alla narrazione, ma che sta lì solo per soddisfare l’appassionato altamente specializzato: dettagli finora non svelati, omaggi al passato, rimandi intertestuali, e via così. Sta succedendo lo stesso, fanno sapere i nerd incalliti, anche con la stagione finale di Game of Thrones. Insieme al dialogo diretto con i fan, la Marvel è stata maestra nel creare una mitologia extra-cinematografica che vale per tutti. Anche questo spiega gli incassi stellari del film. Pure chi non conosce alla virgola gli episodi precedenti sa che cosa significa Avengers. Sa che la saga ha sempre provato a parlare, non senza una certa pedanteria, del mondo che aveva di fronte: oggi la minoranza nera che diventa protagonista (Black Panther), il movimento delle donne che dà battaglia (Captain Marvel). Chi non conosce gli episodi precedenti sa comunque chi è Iron Man, e Captain America, e Vedova Nera, e avrà fatto almeno una volta nella vita il test «Quale vendicatore sei?» (io sono Hulk). Chi non conosce gli episodi precedenti subisce il fascino di quest’ultimo anche solo per il racconto che ne fanno i media (americani, i nostri figuriamoci): è gara alla testata che ha scritto il pezzo migliore tra quelli intitolati «Qual è il momento più adatto per andare in bagno durante Avengers: Endgame»? Più delle storielle di Tony Stark e soci, è questo che finisce davvero nel weekend dell’assalto alle sale: il cinema come grande racconto popolare. O, forse, il racconto cine-pop c’è ancora, è semplicemente cambiato. Non ha più la forma che avevano una volta i film, ma sta dentro i meme, nella paura degli spoiler, negli episodi da attendere come una lunga serie tv. La saga dell’infinito, quella vera. Fortuna che, almeno a noi, è rimasto Checco Zalone.