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Il governo francese invierà un manuale di sopravvivenza alla guerra in tutte le case del Paese. L'obiettivo è fare in modo che tutti sappiano affrontare «minacce imminenti», hanno riferito fonti vicine al Primo ministro Bayrou.
Quella volta che Nadia Cassini rischiò di andare in carcere per aver mostrato il perizoma in tv. L'attrice, protagonista della commedia sexy all'italiana, è morta oggi a 76 anni.

Tarantino, una stroncatura

C’era una volta a... Hollywood è un lungo e virtuosistico riempitivo dell’unica scena che probabilmente il regista voleva girare fin dall’inizio.

25 Settembre 2019

Il diavolo si nasconde nel solito posto, nei particolari: e, pretendendo di avere un certo commercio col suddetto, anche Tarantino. Così, quando all’uscita della sala lo spettatore non fidelizzato – lo riconoscete subito, è l’unico sprovvisto di secchiello da 1Kg di popcorn – si pone la solita domanda, che cavolo di film è mai questo, stavolta trova una risposta quasi subito. C’era una volta a… Hollywood è infatti un lungo, virtuosistico e piuttosto costoso riempitivo dell’unica scena che probabilmente Tarantino voleva girare fin dall’inizio: quella in cui, con un trucchetto digitale, strizza il povero DiCaprio nel giubbotto da aviatore di Steve McQueen e lo infila in una sequenza altamente iconica della Grande fuga. Quanto alle rimanenti due ore e quaranta di film, sono dedicate al suo passatempo preferito e – qui – confesso: gattonare intorno al cinema di Sergio Corbucci.

Sarebbero affari suoi, naturalmente, ma in questo caso diventano qualcosa di più ambizioso, cioè un racconto sul cinema dall’interno, o almeno dai suoi margini. La storia, ormai nota, è quella di una mezza calza dello star system in minaccioso deficit di scritture (DiCaprio), della sua controfigura, diventata con la frequentazione quotidiana una via di mezzo fra Jeeves e Svengali (Pitt), dei loro vicini di villa a Bel Air, i Polanski, e dei tetri invasati che in un ranch abbandonato dei dintorni si preparano a consumare riti più o meno satanici – la Manson Family. Materia non si può dire non ce ne fosse, per raccontare quell’estate del ’69 in cui, lo sanno anche i muri, la Hollywood classica è finita per sempre. Solo che a Tarantino raccontare, in quel senso, interessa fino a un certo punto. Cioè, per nulla. Ma, di nuovo, cosa gli interessa?

Oh, molto altro. Sdoppiarsi fisicamente nei suoi due protagonisti, ad esempio, facendogli prendere a forza i chili mancanti per raggiungere la sua taglia e spedendoli a calci nel sedere dal suo stesso parrucchiere, in modo da armonizzare le tinture del trio. Riempire i vuoti fra una zona e l’altra del racconto – un lavoraccio, il problema è piuttosto trovare il modo di unire i pieni – con tutto quanto lo spettatore identifica, grossomodo, con il cinema: macchine d’epoca, sigarette all’angolo della bocca, lattine di birra accartocciate. E poi, naturalmente, fare in modo che ogni decimetro di pellicola sia una replica, in forma di parodia, di qualche altro film.

Per chi guarda è una seccatura, perché la differenza fra Tarantino e tutti gli altri registi altamente cinefili (che so, Paul Thomas Anderson, o i Coen) è quella che passa fra un volto che ammicca e un altro sfigurato dai tic: in un caso puoi anche compiacerti, nell’altro dopo un po’ fissi un punto all’orizzonte. In questo caso non è solo la compulsione citazionista a stuccare, è anche la mano troppo pesante, persino per gli standard che Tarantino ci ha imposto da vent’anni: benché il pubblico dei secchielli si sganasci, la gag di Bruce Lee che sfodera le sue coreografie d’alta scuola, per venire steso da Pitt con un banale cazzotto, è un remake pedestre del duello rusticano fra l’arabone in nero e Indiana Jones nei Predatori – una scena talmente rifatta anche nelle sciarade in salotto da avere perso un tantino della sua forza propulsiva.

Gli esempi potrebbero continuare, finendo per coincidere con un elenco delle singole inquadrature, ma a metà film circa uno – quello senza secchiello, sempre lui – comincia a chiedersi perché mai sorbirsi altri novanta minuti di una faccenda che i Coen avevano raccontato, senza omettere nulla, nei primi tre di Buster Scruggs. Eccolo qui, però, l’equivoco: Tarantino non parla al pubblico dei Coen, ma al suo, cioè a spettatori che detestano il cinema con la sua stessa virulenza, o lo tollerano solo in quel tipo di deformazione grottesca che solo lui riesce a darne, e che viene considerata la sua cifra d’autore. Lo è anche, naturalmente, e come sappiamo ne fanno parte integrante i finali a base di denti rotti, carni (possibilmente femminee) sbranate, volti liquefatti dal napalm, e così via. Basta aspettare, e arrivano anche qui. E mentre Tarantino, sui media, presenta sia il massacro della Manson Family a opera di Pitt (e del suo pittbull), sia la conseguente incolumità di Sharon Tate e dei suoi ospiti come un canto d’amore a quella meravigliosa realtà alternativa che può essere il cinema, in sala il pubblico dei secchielli ride, da morire. Il che rende piuttosto vacuo domandarsi a cosa serve, questa riproposta ossessiva e truculenta delle Torte in Faccia. Serve a questo.

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