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Sono loro che sono fascisti o noi che siamo paranoici?

In molti parlano di ritorno del fascismo: abbiamo chiesto a due storici e a una filosofa se è una definizione sensata.

di Anna Momigliano

KOBLENZ AM RHEIN, GERMANY - JANUARY 21: (From L to R) Matteo Salvini, Geert Wilders, Marine Le Pen, con Harald Vilimsky e Frauke Petry dell'Afd, a un evento del gruppo Europa delle Nazioni e della Libertà, a Koblenz, in Germania, 2017(Sean Gallup/Getty Images)

La mia generazione è cresciuta leggendo gli intellettuali che avevano vissuto l’ascesa di Hitler e Mussolini: il nazifascismo, ci hanno avvertiti, è arrivato poco alla volta e si è nutrito del fatto che le persone non si sono accorte di ciò stava succedendo prima che fosse troppo tardi. Ci hanno insegnato che il fascismo è subdolo, sa camuffarsi e potrebbe tornare, dunque il nostro compito è restare svegli. Era il monito di Stefan Zweig: «Una pillola e un momento d’attesa, per vedere se la coscienza mondiale tollerava il dosaggio. Ma poiché la coscienza europea ostentava la propria indifferenza, le dosi si fecero più forti». Era l’esortazione di Eco: c’è un fascismo eterno, che può «tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo». Per dirla con Madeleine Albright: «Il fascismo può arrivare poco alla volta e non essere notato fino a quando è troppo tardi». Potremmo metterci dentro Hannah Arendt (i fascisti sanno «diffondere la loro propaganda in forme rispettabili, fino a quando l’atmosfera non è avvelenata da elementi totalitari che sono difficilmente riconoscibili») e George Mosse, secondo cui il fascismo era, più che un regime, «un atteggiamento». Mi domando se, a furia di sentirci dire che il fascismo è qualcosa che è difficile riconoscere e che il nostro dovere è riconoscerlo subito, non siamo diventati fin troppo zelanti.

C’è una preoccupazione diffusa, a sinistra, per un ritorno del fascismo. Il rischio non sono quelli che fascisti si dicono, gli ultras con gli striscioni “Onore a Mussolini” o CasaPound, ma i Trump, i Salvini, i Bolsonaro, gli Orbán, che stanno lentamente sgretolando le democrazie. Tra questi due mondi, peraltro, c’è una sovrapposizione, infatti Salvini ha pubblicato un libro-intervista con un editore vicino a CasaPound, che sarà al Salone di Torino e di questo si sta discutendo animatamente in questi giorni (si parla anche del fatto che Salvini abbia fatto un discorso a Forlì dal balcone da cui parò il Duce). Però non riesco a togliermi il dubbio che questi allarmi siano anche il prodotto di un salto logico: se il fascismo è così difficile da riconoscere e il nostro dovere è riconoscerlo, non è che finiamo per vederlo anche dove non c’è, giusto per non sbagliare? Ne ho parlato con tre studiosi che si sono occupati di questo: lo storico Emilio Gentile, che ha appena pubblicato Chi è fascista (Laterza), la filosofa Donatella Di Cesare e la storica Ruth Ben-Ghiat. Nel suo libro Gentile critica così gli allarmi: «Non credo che abbia alcun senso, né storico, né politico, sostenere che oggi c’è un ritorno del fascismo». Di Cesare e Ben-Ghiat, invece, si dicono molto preoccupate dell’ondata sovranista e vedono elementi di continuità col fascismo. Ma nessuno dei tre utilizza il termine “fascismo” per descrivere Trump, Salvini e simili: Gentile li chiama «neonazionalisti», Di Cesare parla di «sovranismo nazionalista», Ben-Ghiat di «nuovo autoritarismo».

Gentile parte dalla constatazione che, tra ieri e oggi, «le situazioni storiche sono totalmente diverse». Perché «il fascismo, come partito armato e regime totalitario bellicoso e imperialista, ebbe origine dalle conseguenze della Grande Guerra nella politica e nella società italiane, in un continente dove i problemi dominanti erano il consolidamento delle democrazie occidentali e dei nuovi Stati repubblicani sorti in Europa orientale dopo la fine degli imperi centrali e, ancor prima, dell’impero zarista; dall’altra la rivoluzione bolscevica e la sua sfida a tutto il mondo capitalista». Invece «i movimenti e i governi neonazionalisti attuali hanno origine dalla crisi politica e culturale dell’Unione europea, dalla lunga crisi economica iniziata nel 2008, dalle migrazioni verso gli Stati europei». Lo storico nota che non è la prima volta che si lancia un allarme fascismo (ricordate Berlusconi?) e dice che «è solo l’ignoranza o la scarsa conoscenza della storia dell’Italia repubblicana che fa credere a un “ritorno del fascismo” come un pericolo che sta emergendo oggi con le destre populiste e xenofobe». Ma non è forse la demonizzazione dell’altro un tratto tipico del fascismo? «La xenofobia non è propria ed esclusiva del fascismo. Forti movimenti xenofobi furono presenti negli Stati Uniti fin dalla metà del XIX secolo, fino alla Grande Guerra. Ci furono anche in Gran Bretagna e nella Francia. Si può trovare la xenofobia anche in Paesi che non hanno mai avuto il fascismo». E ancora: «La xenofobia delle estreme destre ha origini proprie, attuali, che non sono attribuibili a un “ritorno del fascismo».

Di Cesare, al contrario, vede la questione più sfumata: «La grande domanda è come interpretare questa ascesa dell’estrema destra: qualcosa di nuovo o un rigurgito fascista? Peraltro ci sono difficoltà linguistiche (come si rende “sovranista” in inglese? Lo usiamo noi e i francesi, loro dicono “populism”, i tedeschi dicono “nazionalismo autoritario”) e questo riflette una difficoltà a definire il fenomeno». Dire semplicemente «fascismo» sarebbe sbagliato «perché così si rischia di non capire il fenomeno nella sua interezza». Il sovranismo nazionalista, come lo chiama lei, è un «fenomeno nuovo», una reazione alla globalizzazione, «però ci sono elementi di continuità che sono particolarmente evidenti in Italia». Un esempio? «Una sorta di “ecologia della nazione”, per cui quello che avviene al di fuori della nazione fingiamo di non vederlo, una purezza dell’etnia, prima gli italiani, un razzismo esasperato». Un altro elemento di continuità sta appunto nel dosaggio graduale: «Questa destra sfiora i tabù per vedere fino a che punto può arrivare». La filosofa, che sulla demonizzazione degli immigrati ha scritto Stranieri Residenti (Bollati Boringhieri), azzarda un paragone tra gli ebrei di ieri e i migranti di oggi: «Ci sono differenze, ma anche affinità. Siamo abituati al fatto che gli stranieri vengano internati». Però mica ci sono i campi di sterminio, obietto. «Vero, ma già Arendt diceva che se accetti l’internamento accetti l’idea di un territorio extraterritoriale dove c’è invisibilità. Infatti distingue tra tre livelli: Ade, Purgatorio e Inferno» (Arendt descriveva come Ade le strutture presenti anche in regimi non totalitari per tenere separati gli indesiderabili, come i profughi; il Purgatorio erano i campi di lavoro di Stalin, l’Inferno i campi nazisti).

Ben-Ghiat crede che esista una «normalizzazione del fascismo», iniziata con Berlusconi e non con Salvini: «Nel ’94 ero in Italia e ho avere visto cambiare la situazione: prima se dicevo che studiavo il fascismo, calava un grande imbarazzo, poi invece la gente si sentiva autorizzata dire che Mussolini era un grande uomo. Era iniziata un’onda di memoria revisionista e le porte le ha aperte Berlusconi». Adesso, invece, stiamo «vivendo un momento di contagio», perché i fascisti veri e propri si sentono legittimati dai governi di destra. Da qui a chiamare quei governi fascisti? «Sì e no», dice. Dare loro dei fascisti «non aiuta», confonde le persone. Inoltre «nessuno vuole fare un partito unico, o una censura totale o cose del genere», perché il contesto cambiato. Proprio su questo, Ben-Ghiat mi ha detto una cosa molto interessante: «Oggi neanche Mussolini avrebbe bisogno di fare un partito unico». Nel 2019 i leader autoritari «non hanno bisogno di una dittatura», basta loro indire elezioni non propriamente libere, creare climi di terrore, accumulare potere, come è successo in Russia, Ungheria e Turchia: è questo il «nuovo autoritarismo». Speravo di potere trovare una risposta a una domanda: sono loro che sono fascisti o siamo noi che siamo paranoici? Ora mi rendo conto che mi sono fatta la domanda sbagliata. Perché se c’è qualcosa che la storia di questi anni ci ha insegnato, è che, per affossare una democrazia, non serve una dittatura.