Hype ↓
09:53 martedì 4 novembre 2025
L’attore e regista Jesse Eisenberg ha detto che donerà un rene a un estraneo perché gli va e perché è giusto farlo Non c'è neanche da pensarci, ha detto, spiegando che a dicembre si sottoporrà all'intervento.
A Parigi c’è una mensa per aiutare gli studenti che hanno pochi soldi e pochi amici Si chiama La Cop1ne e propone esclusivamente cucina vegetariana, un menù costa 3 euro.
Il Premier australiano è stato accusato di antisemitismo per aver indossato una maglietta dei Joy Division Una deputata conservatrice l’ha attaccato sostenendo che l’iconica t-shirt con la copertina di Unknown Pleasures sia un simbolo antisemita.
Lo scorso ottobre è stato uno dei mesi con più flop al botteghino nella storia recente del cinema In particolare negli Stati Uniti: era dal 1997 che non si registrava un simile disastro.
La neo premio Nobel per la pace Maria Corina Machado ha detto che l’intervento militare è l’unico modo per mandare via Maduro La leader dell’opposizione venezuelana sembra così approvare l'iniziativa militare presa dall'amministrazione Trump.
Dopo il caso degli accoltellamenti sul treno, in Inghilterra vorrebbero installare nelle stazioni i metal detector come negli aeroporti Ma la ministra dei Trasporti Heidi Alexander ha già fatto sapere che la cosa renderà «un inferno» la vita dei passeggeri.
La Sagrada Família è diventata la chiesa più alta del mondo Il posizionamento di una parte della torre centrale sopra la navata ha portato l’altezza della chiesa a 162,91 metri superando i 161,53 della guglia della cattedrale di Ulm, in Germania
A giudicare dai nomi coinvolti, Hollywood punta molto sul film di Call of Duty Un veterano dei film bellici e lo showrunner del momento sono i due nomi chiamati a sdoganare definitivamente i videogiochi al cinema.

Emily in Paris fa schifo, ma va bene così

Lo show di Netflix, scritto dall’autore di Sex and the City, è un concentrato di stereotipi e cliché, perfetto per l’hate-watching.

13 Ottobre 2020

Emily in Paris è una brutta serie tv. Lo è anche per gli standard che abbiamo imparato a darci negli ultimi anni, da quando la tv si consuma perlopiù sulle piattaforme di streaming e capita che faccia acqua da tutte le parti, e lo è perché manca di tutti quei classici elementi – una storyline interessante, dei personaggi memorabili, una buona cinematografia, dei costumi azzeccati – che fanno un buon prodotto televisivo. Più che al binge-watching, Emily in Paris spinge all’hate-watching: lo si guarda (velocissimamente, almeno, visto che gli episodi durano poco più di venti minuti l’uno) perché è divertente criticarlo e restare sconvolti dalla banalità della trama e dalla superficialità del ritratto che fa di Parigi e dei parigini. In breve: Emily, interpretata da Lily Collins, è una giovane pubblicitaria che si trasferisce da Chicago a Parigi per lavorare nell’ufficio stampa del lusso che la sua azienda di marketing ha appena acquisito. Il suo compito è offrire “il punto di vista americano” ai partner francesi, che naturalmente la odiano sin dal primo minuto e la ribattezzano in men che non si dica “Le Plouc”, e cioè la campagnola. In una parola, basic bitch.

E, in effetti, un personaggio così irritante non lo si vedeva dall’accoppiata Rory-Lorelai Gilmore in Una mamma per amica, che però avevano il pregio di parlare tramite la scrittura divertente e stralunata dei coniugi Palladino. Emily Cooper, invece, è il prodotto standard della mente di Darren Star, sceneggiatore cult che ci ha regalato, tra le altre cose, Beverly Hills 90210, Merlose Place e Sex and the City e che, con la serie che ha debuttato su Netflix lo scorso 2 ottobre, ritorna su uno degli stereotipi televisivi e cinematografici per eccellenza, l’americana a Parigi. I precedenti sono scolpiti nell’immaginario collettivo, da Sarah Jessica Parker/Carrie Bradshaw a Audrey Hepburn/Jo Stockton in Funny Face (in italiano Cenerentola a Parigi). Emily Cooper ha ereditato dalle sue illustri predecessore l’ingenuità dello sguardo sulla capitale francese e soprattutto sulle donne che la popolano, sempre circoscritte in un campionario umano che spazia dalla mangiauomini annoiata e accanita fumatrice alla consumatrice di vino e formaggi che non mette su neanche un kg.

Il mito della “French girl” è stato già ampiamente smontato, ma ciononostante rimane un’incredibile fonte di attrazione, come lo sono tutti gli stereotipi, ed Emily in Paris non ha nessuna intenzione di riscriverlo, ma anzi ci sguazza. Accanto alla Parigi da cartolina, che la protagonista immortala sul suo profilo Instagram che contraddice tutte le logiche del marketing dell’autenticità – le sue foto potevano andar bene nel 2010, oggi ci sembrano stantie – c’è poi il modo in cui Emily si veste, costruito dall’immortale Patricia Field, che Carrie se l’è inventata e ha messo gli stivali di Chanel ad Andy de Il diavolo veste Prada. Come ha raccontato la stessa costumista a Fashionista, i look di Emily sono un mix psichedelico di Chanel, Louboutin, Alexandre Vauthier ma anche, inspiegabilmente, giacche antivento di Hood by Air e borse di Aldo. Emily attacca alla sua borsa dei pendenti a forma di Tour Eiffel come avrebbe fatto la Blair Waldorf di Gossip Girl e indossa, il primo giorno in ufficio niente di meno, camicie con la stampa della città, senza provare nessuna vergogna ma anzi con grande fierezza.

Lily Collins e Ashley Park in una scena di “Emily in Paris”

E proprio questo suo essere priva di gusto nel vestire, più precisamente del gusto europeo, è la sua vera forza, quella del punto di vista americano, che la serie fa coincidere con un certo di numero di fattori piuttosto curiosi. In primis c’è l’arroganza, o “l’arroganza dell’ignoranza” come la definisce un collega francese, di trasferirsi per lavoro in un Paese senza conoscerne la lingua, e di trattare Parigi come fosse il suo parco divertimento personale, quindi l’essere loud (“Perché urli?”, le chiedono durante la prima riunione), tacky (tutti quei colori e tutti quei marchi messi insieme senza nessun rispetto per il nero e lo stile senza logo), hardworking (lei che si presenta a lavoro alle 8:30 e l’ufficio che apre alle 10). Star e Field forzano tutti i luoghi comuni di cui dispongono, cristallizzando lo sguardo americano sui francesi e quello francese sugli americani in una serie di stereotipi così sfacciati da sfondare nel campo del “guilty pleasure”, e salvarsi in corner.

Emily è una “ringarde”, come la chiama un improbabile stilista che dovrebbe essere un po’ Yves Saint Laurent un po’ Jean-Paul Gaultier e che dovrebbe rappresentare la vecchia guardia, e cioè una basic bitch, ancora, una di quelle giovani donne (tutte?) che non hanno uno stile personale ma si affidano a dei simulacri da copiare, come i personaggi televisivi o, sarebbe di certo più credibile nel 2020, le influencer. Non a caso, per alcuni look Field si è ispirata a Chiara Ferragni, che rappresenta bene quell’approccio caotico, spensierato e anche un po’ arrogante alla moda. E in effetti è interessante l’idea di esplorare e raccontare le ragazze che su Instagram chiedono che cosa indossare alla laurea o al primo appuntamento alla loro influencer preferita (non importa che quella poi si vesta malissimo, ma malissimo per chi? Appunto), perché «Senza quelle come me la moda non esisterebbe», come dice Emily allo stilista scandalizzato in una scena che è ridicola e memorabile allo stesso tempo. Peccato non ci sia l’intenzione di approfondire nulla di tutto questo caos.

È facile sentirsi superiori a Emily e ai suoi completini da mal di testa, ridere di come tutti gli uomini francesi che incontra vogliano sempre provarci con lei, osservando poi lo stile perfetto della capa Sylvie, la splendida Philippine Leroy-Beaulieu, e tirare un sospiro di sollievo. Ma Emily in Paris rimane una fantasia mediocre, che ancora una volta (in parte come già successo da noi con Made in Italy) relega la moda, e le persone che la fanno, a un fondale popolato da macchiette (l’unica serie che non l’ha fatto è stata How To Make It In America, brutalmente interrotta da Hbo). Eppure di americani a Parigi ce n’erano da raccontare: perché presentarci la cafoncella di Chicago e non qualcuno che provenisse dal mondo dello streetwear, che la città l’ha conquistata per davvero? La storia di Virgil Abloh, in questo senso, è esemplare. Ma la serie ha altri obiettivi e non sembra interessarsi molto alla contemporaneità: a fronte di alcuni personaggi divertenti nel loro essere dei cliché, come la Mindy di Ashley Park, ereditiera cinese riciclatasi babysitter, e i due colleghi Julien (Samuel Arnold) e Luc (Bruno Gouery), ci rivende imperterrita la stessa formula che si allunga da Funny Face a Gossip Girl, ma senza il glamour, che è una cosa che ormai ci interessa poco. Lontano anni luce da quello che si è visto sulle passerelle di Parigi, il cattivissimo gusto di Emily è però qualcosa di rassicurante, e chissà che non le riesca di riportare in auge i ciondoli attaccate alle borse.

Articoli Suggeriti
Un semplice incidente è la più grande sfida che Jafar Panahi ha mai lanciato al regime iraniano

Palma d'oro a Cannes, serissimo candidato all'Oscar per il Miglior film internazionale, nel suo nuovo film il regista immagina gli iraniani alle prese con l'inimmaginabile: quello che succederà dopo la fine della Repubblica islamica.

Lo scorso ottobre è stato uno dei mesi con più flop al botteghino nella storia recente del cinema

Il calendario non ha aiutato, ma l’imputato principale sembra essere Hollywood, che ha portato in sala solo film che il pubblico ha snobbato.

Leggi anche ↓
Un semplice incidente è la più grande sfida che Jafar Panahi ha mai lanciato al regime iraniano

Palma d'oro a Cannes, serissimo candidato all'Oscar per il Miglior film internazionale, nel suo nuovo film il regista immagina gli iraniani alle prese con l'inimmaginabile: quello che succederà dopo la fine della Repubblica islamica.

Lo scorso ottobre è stato uno dei mesi con più flop al botteghino nella storia recente del cinema

Il calendario non ha aiutato, ma l’imputato principale sembra essere Hollywood, che ha portato in sala solo film che il pubblico ha snobbato.

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a ottobre in redazione.

A giudicare dai nomi coinvolti, Hollywood punta molto sul film di Call of Duty

Un veterano dei film bellici e lo showrunner del momento sono i due nomi chiamati a sdoganare definitivamente i videogiochi al cinema.

Dopo 30 anni di lavori e un miliardo di investimenti, è stato finalmente inaugurato il nuovo, gigantesco museo egizio di Giza

Sarà il museo più grande del mondo dedicato a una singola civiltà e punta a rilanciare il turismo in crisi in Egitto.

La bravura di Josh O’Connor è solo uno dei tanti motivi per vedere The Mastermind

Il nuovo film di Kelly Reichardt, presentato a Cannes e distribuito in Italia da Mubi, non rientra davvero in nessuna delle tante definizioni che ne sono state date. Ed è proprio per questo che è così sorprendente.