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Donald Trump, il presidente Usa che è anti-americano

I suoi tweet razzisti alimentano il pregiudizio, abbassano l’asticella della decenza  e lucrano sulla rabbia dei suoi sostenitori.

di Christian Rocca

Foto BRENDAN SMIALOWSKI/AFP/Getty Images

Solo qualche anno fa, con Barack Obama alla Casa Bianca, si diceva che il latente razzismo di una parte della società americana era stato finalmente spazzato via grazie alla straordinaria storia personale del primo presidente nero degli Stati Uniti. Col passare del tempo possiamo dire che è successo esattamente l’opposto: le guerre culturali americane non sono finite, ma al contrario si sono intensificate. Oggi, il suo successore Donald Trump, eletto anche in reazione agli anni obamiani, fa ampio ed esplicito richiamo a temi e parole d’ordine contro gli stranieri, contro i neri e contro i diversi, a cominciare dal fortunato slogan elettorale “America First”, prima l’America, che rimanda a quello delle campagne filofasciste degli anni Trenta e che, cambiando il Paese da favorire prima di ogni altro, adesso viene usato dagli estremisti di destra di tutto il mondo.

A metà luglio, Trump ha invitato quattro deputate di pelle non bianca, molto critiche dell’operato della Casa Bianca, a «tornarsene a casa», cioè nei paesi di origine, nonostante tre su quattro delle congresswomen, Alexandria Ocasio-Cortez di New York, Rashida Tlaib del Michigan e Ayanna Pressley del Massachusetts, non hanno alcun Paese dove tornare, essendo nate e cresciute negli Stati Uniti, esattamente come Trump. La quarta deputata, Ilhan Omar del Minnesota, invece è emigrata negli Usa dalla Somalia, è diventata cittadina americana ed è titolare degli stessi identici diritti che può vantare Trump (o la madre di Trump o due delle tre mogli di Trump, nate in Europa ed emigrate a New York). La cosa che accomuna le quattro deputate prese di mira dal presidente è che sono di colore, oltre ad avere nomi non wasp.

In America si usa l’espressione dog­whistle politics, la politica del fischietto a ultrasuoni udibile solo dai cani, per descrivere i messaggi in codice storicamente lanciati da alcuni politici per richiamare i propri seguaci estremisti in modo da non essere accusati apertamente di razzismo. Trump è un maestro nell’usare queste tecniche, ma la grande differenza rispetto al passato è che ora non c’è più bisogno di nascondere la mano, anzi si può rivendicare il diritto al razzismo, oltre che a raccontare bugie, si può liberamente alimentare il pregiudizio, abbassare l’asticella della decenza  e lucrare sulla rabbia e sul risentimento dei sostenitori.

I tre tweet di Trump contro la “squad” delle deputate, parlano da soli: «È interessante», ha scritto il presidente, «vedere le deputate progressiste dei Democratici, provenienti originariamente da Paesi i cui governi sono una completa e totale catastrofe, anzi i peggiori e i più corrotti del mondo, ammesso che siano dotati di uno stato funzionante, spiegare in modo rumoroso e violento al popolo degli Stati Uniti, la nazione più grande e più potente della terra, come dovrebbe essere amministrato il nostro Paese. Perché non se ne tornano a casa ad aiutare i posti completamenti guasti e infestati dal crimine dai quali provengono?».

Il «send them back» rivolto alle deputate americane è diventato uno slogan da urlare ai comizi, mentre Trump assiste beato al vociante orgoglio xenofobo dei suoi fanatici, esattamente come quando era lui stesso a sobillare il «lock her up», mettila in galera, berciato contro Hillary Clinton, ma stavolta con l’aggravante razzista. Mentre i grandi giornali, l’ultimo il Los Angeles Times, lo definiscono «l’intollerante in capo dell’America», Trump continua a non scomporsi e arriva a definire «grandi patrioti» i suoi tifosi che vorrebbero mandare non si sa dove le deputate americane, così come non si era fatto problemi a definire «brave persone» i neonazi che sfilarono a Charlottesville un anno e mezzo fa. Nonostante ciò, o forse proprio per questo, i sondaggi elettorali e le inchieste del New York Times svelano che la popolarità di Trump cresce di giorno in giorno e così, in vista della campagna del prossimo anno, la macchina presidenziale amplifica le sue  parole e investe denaro su Facebook proprio sui temi dell’immigrazione.

Trump ha una lunga storia di comportamenti razzisti, alcuni dei quali sono stati denunciati pubblicamente dal suo ex avvocato Michael Cohen, a cominciare dalla sistematica esclusione degli afroamericani dalle case popolari gestite dal padre fino alla campagna per la pena di morte contro un gruppo di innocenti ragazzi neri secondo lui invece colpevoli di aver commesso uno stupro a Central Park. Finora nessuno è riuscito a contenerlo, né i Democratici né le inchieste federali, alcune ancora in corso, bordate micidiali che in altre epoche avrebbero indebolito chiunque.

Dei Repubblicani, scomparso il senatore John McCain, nemmeno a parlarne, così come non si sentono fiatare i nuovi populisti occidentali. Eppure alcuni di loro, se non tutti quanti, farebbero bene a riascoltare l’ultimo discorso del presidente Ronald Reagan, pronunciato il 19 gennaio 1989, il giorno prima della fine del suo secondo mandato. Citando una lettera ricevuta qualche mese prima, Reagan disse «che si può andare a vivere in Francia, ma non si diventa francesi; si può andare a vivere in Germania, in Turchia o in Giappone, ma non si diventa tedeschi, turchi o giapponesi. Invece chiunque, da qualsiasi angolo della Terra, può venire a vivere in America e diventare americano: questa è una delle più importanti ragioni della grandezza dell’America. Il motivo per cui guidiamo il mondo – ha concluso Reagan – è perché, unici al mondo, prendiamo il nostro popolo, la nostra forza, da ogni Paese e da ogni angolo della Terra». Era Reagan, con Thatcher, il campione inavvicinabile del conservatorismo occidentale. Un discorso da ricordare al primo presidente anti-americano degli Stati Uniti e ai suoi seguaci in Italia e in Europa.