Cultura | Social

Si può fare ancora cultura sui social?

Gli algoritmi rendono sempre più difficile creare contenuti di qualità, a differenza che in passato. Ma è difficile immaginare strumenti diversi per fare lavoro culturale oggi.

di Davide Coppo

Come con molte delle cose che non mi piacevano all’inizio, è andata a finire che ho fatto l’abitudine anche alle immaginette colorate travestite da articoli su Instagram. Quelle con un titolo messo sopra, magari due o tre slide ulteriori, e poi una didascalia da 1000 battute, tempo di lettura 2 minuti, che vorrebbero spiegarti fenomeni come El Niño o la gentrificazione delle città d’arte italiane nello spazio di un copy pubblicitario. Instagram sta cambiando in molti modi, diversi da prima e diversi tra loro. Ne parliamo da oltre un anno: sta ormai finendo l’era in cui era un contenitore di creatività fotografica e grafica o un diario di cibo e vacanze, e sempre di più si va trasformando in una vetrina di prodotti sponsorizzati, corsi di ginnastica, video stupidi o motivazionali, ricette o sciocchezze lifestyle. Spesso questi contenuti ci appaiono senza che lo vogliamo, vale a dire senza che abbiamo scelto di vederli. Sono i “suggeriti per te”: è l’algoritmo che sceglie, sostituendosi alla nostra volontà sempre più sbriciolata, cosa farci vedere mentre procrastiniamo da altre cose più intelligenti, produttive o semplicemente rilassanti. In un feed diventato così scemo, contenuti giornalistici di qualità minima si sostituiscono ai giornali veri e propri, proprio come i social si sono sostituiti a internet negli anni passati. Il problema dei social è che sono sempre meno costruiti per ospitare contenuti, discussioni complesse, scambi di opinioni: in poche parole, cultura.

L’era dell’algoritmo è iniziata più meno nel 2016, quando abbiamo iniziato ad accorgerci che i post che vedevamo scrollando non erano più in ordine cronologico, dal più recente al più vecchio, ma disposti secondo un ordine casuale, che non riuscivamo a comprendere. Furono molte, allora, le proteste. Anche in quel caso, ci abituammo dopo poco. Da allora, i feed algoritmici sono diventati la norma anche in Facebook, Twitter, TikTok. L’algoritmo sceglie cosa farti vedere anche tra ciò che non segui. Dice: ti farò scoprire cose che non conoscevi ancora. Intende: ti imboccherò di cose che interessano a me soltanto.

Cosa vuol dire, però, produrre cultura su un social network? Se consideriamo il senso preciso dell’espressione – rete sociale – i “social” non nascono con Facebook, ma esistono da molti anni prima. E, in un certo modo, erano un veicolo di cultura. Prima del 2008, prima dell’algoritmo e del like, esistevano delle vere reti: delle comunità. Erano MySpace, erano le migliaia di forum di ogni argomento, ed era così anche il primo Facebook, e il Twitter pre-Musk, anche se solo in certe nicchie. Cosa vuol dire produrre cultura su un social network? Direi: occuparsi di argomenti con competenza, sobrietà, tranquillità. Soprattutto approfondimento. Vuol dire divulgare, e in un certo modo imparare. Vuol dire anche creare un ecosistema, come prima cosa. Servono degli utenti che interagiscano non incontrandosi per caso, ma conoscendosi a poco a poco. Serve una rete, sì, ma non troppo larga: servono anche delle bolle. Persone che si conoscono, si riconoscono, si coltivano una reputazione. La giornalista del New York Times Virginia Heffernan, in un vecchio articolo, parlava di “Internet neighborhoods”: si riferiva ai forum, probabilmente lo strumento su cui la cultura è stata più valorizzata da quando esiste internet.

I forum erano i social network perfetti per i contenuti di qualità, perché erano costruiti in modo diametralmente opposto ai social network di oggi. Come scrive Francesco Gerardi in questo “elogio dei vecchi forum“, era fondamentale la qualità della discussione, in quei contesti. Ogni argomento aveva una sua stanza dedicata. Bolle, micro-comunità. Il posto giusto per la cosa giusta e per le persone giuste. Serviva “postare”, poi, qualcosa di non troppo scemo per farsi una reputazione, che si misurava con delle stelline e un contatore di post. Gavetta, insomma. Andare off-topic – praticamente la norma sui social odierni – era il massimo stigma.

Oggi è impossibile crearsi una reputazione, anzi, peggio: è inutile. Le interazioni che l’algoritmo vuole sono quelle di sconosciuti con sconosciuti, senza niente da perdere, senza niente da dimostrare. Un post sbagliato, e la reputazione non esiste più come scudo o storia: una shitstorm è in grado di cancellare anni di impegno. Nessuna stellina può resistere. Non funziona solo in senso negativo, ma anche positivo: io stesso commento con le emoji “fuoco” o “cuore” certi post che meriterebbero un approfondimento maggiore, ma chi si prenderebbe la briga di leggere, e poi di rispondere, e poi di creare una discussione? Lo scrolling distruggerebbe ogni sforzo. In più, l’impossibilità su Instagram di includere nei commenti collegamenti o immagini rende un commento ancora meno multimediale, quindi più difficile da arricchire con quelli che una volta si chiamavano “hyperlink”. È un social fatto per l’auto-narrazione, non per la discussione. Le stories stesse, lo strumento di pubblicazione più utilizzato, in grado di scomparire in 24 ore, lo dimostrano appieno.

Tumblr, a prima vista, poteva sembrare simile a Instagram: un social network su cui si postano foto, no? Non proprio. Tumblr – che ha compiuto 15 anni nel 2022 – funzionava senza il meccanismo dell’influencer: la celebrità non era un requisito necessario, la community tendeva a diverse piccole nicchie, perché il meccanismo del posting era estremamente libero. Che fosser testi, fotografie o gif, Tumblr non aveva censure: questo fece fiorire una cultura molto ricca e molto sfaccettata. La mancanza di censure creerà un certo numero di mostri e di zone d’ombra, moralmente problematiche, ma è anche il solo sistema per permettere alla creatività di fiorire. Il sistema del reblog era poi la chiave per la sua capacità – unica – di fare cultura. A differenza del retweet di Twitter, il reblog di Tumblr permetteva di ri-condividere anche la discussione sotto una foto (che somigliava, graficamente, a quelle di Reddit), portando questi thread in giro per internet, e rendendoli potenzialmente partecipatissimi.

Facebook è stato, per un certo periodo, abbastanza simile a un forum. Il sistema di commenti creava discussioni lunghe e potenzialmente produttive, dopodiché l’algoritmo ha iniziato a penalizzare i link provenienti da siti esterni, per favorire immagini e video nativi. Ma un social è come una società: quando vuole chiudersi in se stesso, perché spaventato dall’aprirsi all’esterno, la sua cultura interna sparisce. Nel giugno 2023 è stato creato, a dimostrazione di questo, uno dei post con più interazioni di sempre: l’immagine digitale di una patata dorata con scritto “Questa è la patata della fortuna, ignorala e domani non avrai buone notizie”. Ha raggiunto i tre milioni di like, con centinaia di migliaia di commenti e condivisioni. Facebook è ormai colonizzato da anziani e complottisti: condividere un articolo, avviare una discussione culturale o politica avrebbe l’effetto di varcare la soglia di un capannone vasto e svuotato da tutto, e trovare sotto la polvere enormi gif di mani che applaudono o pollicioni che si muovono avanti e indietro.

Twitter, infine, sembra oggi una nave spaziale che è uscita dalla sua traiettoria gravitazionale, diretta verso l’ignoto. In un certo modo, è stato uno dei social che hanno movimentato la cultura e la politica più a lungo. Poi è finita. È finita prima di Musk, è finita perché le cose finiscono, a volte succede e basta. I suoi hashtag hanno fatto scricchiolare governi, certi giornalisti hanno praticamente re-inventato il concetto di editoriale, nei primi anni Dieci. Poi i difetti antropologici degli altri social hanno infettato anche quella piattaforma, a rendere evidente come il concetto di una “piazza unica” per tutto il mondo, senza segmenti e senza divisioni, debba sfociare inevitabilmente nel caos. Nel suo piccolo, l’introduzione della funzione “cita il tweet” altrui ha minato ancora di più il dialogo, trasformandosi in strumento perfetto per una piccola gogna digitale. Il giornalista Ryan Broderick, nella sua newsletter Garbage Day del 7 luglio, ha mostrato come le alternative a Twitter siano in realtà tutte peggio di Twitter, e cioè costruite in base a un algoritmo che intende favorire contenuti virali, cioè scemi. Il virale è estetico, è polemico, è divertente, ma non può essere culturale, perché richiede velocità, e funziona se non è appesantito dalla critica.

Twitter, il 24 luglio 2023, è stato ribrandizzato X da Elon Musk, tra lo sconcerto generale. Siamo in un’era in cui tutti i social network che conoscevamo stanno finendo, e in molti potremmo dire: per fortuna. Ma esistono alternative, per produrre cultura su internet? I quotidiani sono in grado di vivere senza i social? Le riviste, per quanto esisteranno ancora? Non possiamo vivere senza piazze di scambio culturale, apparentemente: erano i caffè, prima, poi è arrivato internet, poi sono diventati i social e ora i social stanno morendo. La discussione sulle prossime elezioni americane, sul cambiamento climatico, sulla cultura dello stupro o sul nuovo film di Greta Gerwig hanno bisogno di piattaforme, per essere tali. Altrimenti saranno video-recensioni di influencer, influ-opinionisti o influ-attivisti, che diranno: è bello, è brutto, è giusto, è sbagliato. Le motivazioni sono troppo lunghe per questo algoritmo.