Stili di vita | Dal numero
C’era una volta il bar
Innovazioni politiche, culturali ed economiche sono spesso nate intorno a un tavolino. Elogio di un luogo che ci manca.
Sono le cinque del mattino al bar Maxim’s, uno dei club più in voga di Bucarest. Davanti a una schiera di bottiglie di champagne, il trentenne Georges Simenon inizia a parlare con un uomo seduto vicino a lui. Non scorre, a quell’ora, soltanto vino francese, ma whisky e altri superalcolici, eppure l’atmosfera non è quella che ci si potrebbe immaginare dopo una notte di eccessi: anzi, si respira «un clima piacevolmente rilassato», in cui Simenon individua artisti, un magistrato ed esperto di diritto internazionale, un dotto rumeno, un ex ministro. È una scena descritta con più dettagli in Europa 33, una raccolta di reportage di viaggio scritti da Simenon dal Belgio a Istanbul in un anno cruciale per il mondo, in cui lo scrittore misura il polso al continente in equilibrio precario tra le due guerre. Non è un episodio fondamentale, ma apre una finestra su un mondo – quello dei caffè, dei bar, dei ristoranti e dei club – che per oltre un secolo è stato il laboratorio in cui si progettavano le innovazioni politiche, culturali, economiche e sociali dell’Europa.
Si potrebbe arrivare a dire che l’Occidente stesso, per come lo conosciamo, è nato nei bar, intorno a tavolini con sopra un bicchiere di vino, oppure di whisky, o una tazza o tazzina di tè e di caffè, negli orari più diurni. In un certo senso è quello che fa il saggio A Rich Brew: How Cafés Created Modern Jewish Culture di Shachar Pinsker, un professore ed esperto di cultura ebraica della University of Michigan, un testo del 2018 molto ben recensito e vincitore di diversi premi. Pinsker riconduce ai bar non soltanto la “moderna cultura ebraica” del titolo, ma la nascita delle democrazie europee. «La democrazia non fu costruita nelle strade», ha scritto Adam Gopnik commentando il libro sul New Yorker, «bensì tra i piattini». Perché i caffè? In breve: perché i caffè, nel Diciannovesimo secolo, erano tra i pochi posti in cui ci si poteva riunire comodamente ed evitando gli occhi panottici dello Stato. E quindi discutere, lamentarsi, e all’occorrenza cospirare. Pochi luoghi, ad esempio, furono importanti per la vita politica e culturale europea quanto il Café Central di Vienna, inaugurato nel 1876, culla del Positivismo, che accolse ai suoi tavolini rotondi, tra gli altri, Theodor Herzl e Adolf Hitler, Josif Bros Tito e Vladimir Lenin. A proposito di storia e cospirazioni, c’è un aneddoto piuttosto famoso legato al Café Central: pochi anni prima della Prima guerra mondiale, si trovarono a discutere Viktor Adler, deputato socialdemocratico austriaco, e l’importante Leopold von Berchtold, ministro degli Esteri austroungarico. Adler intendeva mettere in guardia il conte von Berchtold: una grande guerra continentale, diceva, avrebbe favorito una pericolosa rivoluzione in Russia. Von Berchtold tuttavia trattò quell’ammonimento con arroganza, rispondendo: «E chi la farebbe questa rivoluzione? Forse il signor Bronstein che se ne sta seduto al Café Central?». Il signor Bronstein era effettivamente un giovane politico russo che passava le sue giornate al Café Central, esiliato per sempre dalla madrepatria, sovente giocando a scacchi. Di lì a poco tempo cambiò di nome, assumendo lo pseudonimo con cui diventerà celebre nel mondo, e con cui, effettivamente, farà la rivoluzione in Russia: Lev Trockij.
Che i bar siano uno straordinario incubatore di creatività, politica e sociale, è anche alla base del pensiero di Jürgen Habermas, che trattò nel 1971 il tema in Storia e critica dell’opinione pubblica parlando della nascita della sfera pubblica e, di conseguenza, della pubblica opinione. Mentre ragionavo su questo stesso articolo avrei voluto passare del tempo in un bar o in un caffè, fare per così dire ricerca sul campo, per usare un’immagine autoindulgente. Nel 2020 e 2021, per la prima volta da decenni, forse anzi da sempre, Guerre mondiali comprese, l’Europa si è trovata a fare i conti con la scomparsa, pressoché totale, di questa sfera. I lockdown istituiti a marzo e sollevati soltanto per i pochi mesi estivi, e successivamente i coprifuoco, hanno eliminato la possibilità di un’interazione pubblica, e in un certo senso anche l’incontro e sfregamento delle diverse bolle che compongono le società metropolitane. Chiuso in casa, scaldato attraverso il vetro dal primo sole di gennaio, ho inviato email e WhatsApp come se fossero messaggi di disperazione: anche a voi mancano i bar?, chiedevo. E poi: che cosa ne sarà della città senza i bar? E cosa ne sarà delle nostre vite, e dell’Europa, e così via? In modo meno drammatico: che rischi ci sono per la vita culturale delle città, senza quella particolare sfera pubblica costruita intorno ai caffè, ai bicchieri di vino, agli aperitivi?
Nicola Lagioia, che fa lo scrittore ma, in questo caso, soprattutto, il direttore del Salone del Libro di Torino, e quindi deve, per passione e per lavoro, “agitare”, coordinare chiacchiericci, stimolare idee, mi risponde con un aneddoto, che mi colpisce perché si ricollega a Habermas, e alla “società dei caffè” del saggio di Pinsker: «Qualche anno fa», mi scrive, «chiedemmo a Javier Cercas di aprire il Salone del Libro con una conferenza sull’idea di Europa. A un certo punto, citando Steiner, Cercas dice: “Alcuni anni fa George Steiner sembrò tentare di definire l’identità europea in una conferenza intitolata L’idea di Europa. Vi argomentò che il nostro continente può essere ricondotto a cinque assiomi. Il primo è che l’Europa è i suoi caffè, quei luoghi d’incontro in cui la gente cospira e scrive e dibatte, e in cui sono nate le grandi filosofie, i grandi movimenti artistici, le grandi rivoluzioni ideologiche ed estetiche”».
Perché i bar o i caffè funzionino così bene nell’equilibrio culturale di una città è spiegato anche da Ray Oldenburg, un importante sociologo americano che si inventò il concetto di Third place: luoghi che non sono né la casa né il lavoro essendo la casa il first place e il lavoro il second – e che, per questa terzità, si configurano come posti neutrali. Chi li frequenta è una folla infatti eterogenea, che non è unita da necessari legami finanziari, politici o legali. Non c’è selezione all’ingresso né esistono prerequisiti da soddisfare: sono posti livellanti, detto in un senso positivo. Infine, la conversazione è l’attività principale che vi si pratica. Jane Jacobs, l’antropologa e urbanista canadese che si battè contro il dominio delle automobili e per le città “a misura d’uomo”, descriveva la felice circolazione delle idee nei caffè con un termine affascinante, e in un certo senso beffardo, se letto in un anno segnato drammaticamente da una pandemia: «Knowledge spillovers».
A proposito di circolazione delle idee e di rinculi pandemici, è impossibile non parlare in questo senso di Milano, la città italiana che ha forse pagato il prezzo più alto tra tutte, nei termini poco definibili di una vivacità culturale che si è bruscamente arrestata, e che sarà difficile, per diversi motivi soprattutto economici, far ripartire allo stesso modo. Come una beffa, nei primi mesi dell’anno è ricomparsa nella politica lombarda anche Letizia Moratti, l’ex sindaco di centrodestra contro cui vinse Giuliano Pisapia nel 2011, rappresentando un cambio di rotta e di entusiasmo che fu una boccata d’aria culturale e imprenditoriale come mai prima, per la città. Pierfrancesco Maran, allora, era l’assessore più giovane della giunta, con delega alla Mobilità, Ambiente, Acqua pubblica, Energia e Metropolitane. Nella giunta Sala, oggi, si occupa di Urbanistica, Verde e Agricoltura. In questi anni, a Milano, ha contribuito a raddoppiare le isole pedonali, incentivato un’estesa rete ciclabile ancora in espansione, e promosso un’estensione della possibilità di occupazione di suolo pubblico da parte di bar e ristoranti, togliendo allo stesso tempo spazio ai parcheggi di auto. «Uno dei segni più profondi di questi dieci anni di cambiamento di Milano è stato l’utilizzo dello spazio pubblico, ossia come si sono cambiate piazze e strade, e quindi vita sociale», mi dice. «Milano, in tema di vita notturna [ma non di clubbing, nda] in questi anni è diventata una delle città più vivaci d’Europa».
In quanto metropoli divisa tra la Mitteleuropa e il Mediterraneo, Milano non vive la sua socialità, come Napoli, Roma o Palermo, di piazze affollate di persone pigiate l’una sull’altra, o almeno non per la maggior parte dell’anno. Ci sono sì i concentramenti umani di San Lorenzo o dei Navigli, ma gli habitué, da quelle parti, sono studenti liceali oppure universitari, niente a che vedere con il San Calisto romano, il Perditempo napoletano, per citare due luoghi molto frequentati in modo transanagrafico, fatti di folle in piedi come a un concerto continuo. A Milano i bar sono importanti non solo per quello che vendono, ma anche per quello che sono e rappresentano. Lo spazio, qui, si sviluppa all’interno, più che all’esterno, seduti intorno a un tavolo. Il Bar Basso, attivo dal 1947, è ancora oggi un hub fondamentale per il mondo della moda e del design, centro delle settimane della moda così come del Salone del mobile. Anni prima il Giamaica, ancora attivo in Brera ma non più rilevante come un tempo, fu il ritrovo principale per intellettuali e pittori nel secondo Novecento: passavano di qui, si fermavano e bevevano, in una Brera ancora popolare, Luciano Bianciardi, Ugo Mulas, Dino Buzzati, Piero Manzoni, Camilla Cederna. Tra le cose nate e accadute più di recente, in città, è forse rilevante non un singolo esempio ma la serie di bar che compongono via Lecco e dintorni, il “gay district” della città sbocciato negli ultimi anni, un quartiere-laboratorio fiorito nel cuore della zona eritrea ed etiope. Qui siamo anche a pochi passi dal Love, altro locale – sia club che bar – al centro della vita notturna degli anni Dieci, gestito da una famiglia etiope interamente femminile. Durante una fashion week molto timida e distanziata, a settembre del 2020, è qui che Marco Rambaldi, uno dei più interessanti tra i giovani stilisti adottivi milanesi, ha scelto di sfilare: sul palco della piccola via solitamente occupata da tavolini, luci e migliaia di avventori, svuotata dalla pandemia la primavera precedente.
Cercando tra quegli studi scientifici validi ma un po’ frivoli, di
recente mi sono imbattuto in una ricerca del 2012 pubblicata sul Journal of Consumer Research che mostra l’effetto positivo di un leggero rumore di fondo sulla creatività, suggerendo che lavorare nei caffè è meglio che in ufficio o a casa: il chiacchiericcio, rendendo appena più difficile la concentrazione, stimola il cervello a lavorare di più e meglio – un po’ come camminare con dei leggeri pesi intorno alle caviglie. Ho scoperto poi che non era l’unica ricerca di questo tipo: un altro studio del 2014 della University of Ontario, per esempio, parla esplicitamente di the coffee shop effect.
Che l’anno della pandemia non sia stato un anno di guerra l’hanno ripetuto in molti e per mesi, e lo si vede anche dalla noiosa responsabilità che ci ha preso tutti o quasi, nella vita anestetizzata nel rispetto pressoché totale di confini comunali, regionali, orizzonti domestici. Auguriamoci che di simile alla guerra possa essere però la liberazione, fatta di chiassose polifonie interminabili intorno a tavolini e banconi, calici pieni giorno e notte, zelanti impegni collettivi a spendere tutti i soldi e le parole risparmiate per mesi.