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Nel Paese delle criptovalute selvagge
Racconto della comunità dei bitcoiner newyorchesi, una Woodstock informatica in cui le digital currency non significano solo speculazione ma rappresentano anche una filosofia di vita e un'idea di rivoluzione.
Il logo disegnato da Stacey Coon, Anastasia Sultzer e Nanu Berk per la Bitcoin 2021 Convention (Photo by Marco Bello/ Afp via Getty Images)
Su Broadway e la 83ª strada, a Manhattan, ogni due settimane dalle sei di sera si accende un pannello giallo canarino con un grosso Qr code sotto la scritta “WELCOME TO THE BITCOIN HAPPY HOUR”. Qualche frequentatore dell’Upper West Side si ferma a scannerizzare il Qr e si avvicina alla porta a vetri che separa il mondo dei bitcoiners dai “no-coiners” (in crypto slang, più o meno l’equivalente di “babbani”). Chi osserva da dentro può notare l’iniziale curiosità dei volti di chi sta dall’altra parte, prima che si allontani, riorganizzarsi gradualmente in scetticismo e sarcasmo. Più raramente, qualcun altro con look meno raccomandabile entra pensando che qui si faranno dei soldi facili e non del tutto puliti, e dopo una veloce ricognizione se ne va con la stessa aria sarcastica, evidentemente scocciato di essersi trovato invece in mezzo a un gruppo di entusiasti che si esprimono in un linguaggio cifrato e si scambiano sguardi ispirati.
L’open space che ospita il Bitcoin happy hour è l’erede del “Bitcoin Center” fondato a Wall Street nel 2013, che forse ricorda chi ha visto il documentario Banking on Bitcoin. Occupa lo spazio di un’ex farmacia e ha l’aspetto di un locale appena sgomberato e in via di costruzione, che si addice alla sua nuova identità di “Blockchain Center”. È stato aperto lo scorso settembre e all’inizio conteneva solo una ventina di sedie da gaming nere e arancioni sparpagliate intorno a dei tavoli bianchi e alcune lavagne magnetiche appese alle pareti grigie sverniciate. Nel giro di un mese quasi tutti i muri sono diventati arancione Bitcoin, sono comparsi dei bassi divani blu e due o tre piccoli tappeti persiani sul pavimento di cemento grezzo, e qualcuno ha rivestito di fogliame finto una nicchia rialzata con un dj controller, illuminata da un altro piccolo schermo luminoso azzurro con il nome di una criptovaluta. Accanto a due Bitcoin Atm spenti, sulla parete di destra dipinta di bianco, ogni tanto viene proiettata un’enorme faccia di Shiba Inu (il cane simbolo di un clone di Bitcoin chiamato Dogecoin e di altre meme coins che hanno generato diversi milionari). Su un tavolino di metallo rotondo, intorno a cui si radunano i frequentatori del Bitcoin happy hour, a disposizione di tutti c’è un mucchietto di libri canonici per il cripto-investitore, tra cui The Bitcoin Standard di Saifedean Ammous o The Internet of Money di Andreas Antonopulos.
Al mio primo Bitcoin happy hour, dopo un rincuorante scan della situazione (tutti avevano una birra in mano e lo sguardo che diceva “sono anche io qui per la prima volta e non ho idea di che cosa stia succedendo”, alcuni oscillavano sulle sedie da gaming con le rotelle) ho aperto la mia birra e ho chiesto al mio vicino di sedia se aveva letto quei libri. Non li aveva mai letti, era venuto all’evento solo per farsi suggerire delle “exit strategy” per i suoi investimenti. Non tutte le “crypto people” sono idealiste, naturalmente, e molti si avvicinano più alla tipologia del “degen trader” – l’investitore “degenerato” che entra in progetti anche decisamente dubbi sperando che vadano “to the moon” – che a quella, all’estremo opposto dello spettro, del “Bitcoin maximalist”: il fondamentalista che crede che Bitcoin sia l’unica criptovaluta importante e chiama tutte le altre “shitcoins”, e pensa, come molti altri più moderati di lui in realtà pensano, che il valore di Bitcoin non sia che lo specchio della portata socialmente ed economicamente rivoluzionaria della sua tecnologia.
Un Bitcoin maximalist che veniva ai primi incontri insieme a un amico in giacca e cravatta impiegato in JP Morgan, la banca che ha sempre alimentato la macchina del fango contro il mondo crypto, era deluso di non essersi trovato a un raduno dei suoi simili. «Sono venuto qui credendo di trovare nuovi amici a New York che condividessero i miei valori, invece tutti stanno parlando di shitcoins», mi ha detto mostrando sincero sconforto. Gli ho condiviso il profilo Twitter di un noto sedicente “toxic” maximalist italiano, cercando di farlo sentire in qualche modo meno solo. La volta successiva mi ha ringraziata, ma poi l’improbabile coppia troppo purista non si è più fatta vedere.
Mira, una finlandese under 40 che fa presenza fissa al Bitcoin happy hour, è una non-toxic maximalist con un sorriso sicuro e lo sguardo glaciale e appassionato. Indossa una maglietta nera e gialla con scritto “Ask me about Bitcoin”, è in grado di tenere un seminario su qualsiasi capitolo della fede di un bitcoiner e ha un contro-argomento adamantino per ogni critica che la narrativa mainstream ha mosso contro Bitcoin. Sa far calare un religioso silenzio quando spiega ai “newbies” come un software non controllato da nessuna autorità centrale possa sconvolgere il sistema gerarchico della finanza tradizionale, emancipando il valore del denaro e la proprietà individuale dal controllo di governi o banche. La maggior parte dei partecipanti al Bitcoin happy hour sa già queste cose, ma lo stesso tutti sgranano gli occhi di piacere mentre ascoltano ancora una volta la familiare aria sovversiva che è stata incisa fin dall’inizio nell’ideazione di Bitcoin. Satoshi Nakamoto, pseudonimo del misterioso e scomparso creatore di Bitcoin, inserì nei dati del blocco che contiene la prima transazione verificata (“genesis block”) il titolo di un articolo sulla prima pagina del Times di quel giorno, 3 gennaio 2009: “Chancellor on brink of second bailout for banks”. Era la crisi del 2008, e il messaggio era chiaro: Bitcoin nasceva come una alternativa al sistema bancario malato. Il protocollo è stato programmato per generare un asset deflazionistico e raro. Ogni quattro anni la produzione di Bitcoin si dimezza (“halving”) e si fermerà una volta raggiunti i 21 milioni di Bitcoin (nel 2140, secondo i calcoli). Nessuno controlla Bitcoin. Per questo “Satoshi Nakamoto” è uscito di scena e nessun bitcoiner è interessato a scoprire la sua vera identità. Bitcoin è tenuto in vita e posseduto da tutti coloro che partecipano al network operando le transazioni che vengono registrate sulla blockchain, un libro mastro (“ledger”) pubblico. Le transazioni sono convalidate da un sistema di consenso decentralizzato chiamato “proof of work”, in cui i membri del network (i computer) spendono potenza di calcolo in una gara per risolvere un complesso problema matematico: il primo che arriva alla soluzione fa aggiungere la transazione alla blockchain e riceve in cambio un compenso in Bitcoin (che si dimezza a ogni halving). Questo processo, che si chiama mining, garantisce la sicurezza e la decentralizzazione di Bitcoin. All’inizio il mining poteva essere fatto in casa, da qualunque nerd dotato di un normale computer. Con la crescita del network sono stati messi a punto dei piccoli dispositivi specializzati chiamati ASICs e oggi le mining farms sono enormi capannoni con centinaia di migliaia di ASICs che lavorano 24 ore su 24 con grande consumo di energia, distribuiti in tutto il mondo.
Con la crescita del network, Bitcoin ha iniziato a essere concepito come “oro digitale” più che come moneta di scambio. A un certo punto, nella testa di un vero bitcoiner, avviene una conversione dal “bias fiat” al “bias Bitcoin”: la valuta fiat, l’euro o il dollaro, si rivela la regina delle shitcoins, e il valore di riferimento diventa Bitcoin. È importante per ogni bitcoiner conoscere il funzionamento della tecnologia di Bitcoin perché è proprio in quello che Ray Dalio ha definito “one hell of an invention”, la genialità dell’invenzione, che risiede il suo sottostante. Per questo i bitcoiners quando si riuniscono amano parlare e riparlare degli aspetti tecnici che sono così strettamente connessi al valore economico. Al Bitcoin happy hour, i più dedicati alla causa sono felici di diffondere il verbo e di rispondere alle domande più profane, e allora regna uno strano, gradevole mix di massimalismo e apertura (anche se, durante una di queste conversazioni autocompiacenti, un anziano signore molto perbene ha alzato la mano e ha chiesto in tono affabile quando Bitcoin passerà da “proof of work” a “proof of stake” – un altro tipo di metodo di consenso utilizzato da blockchain diverse da Bitcoin – e per qualche secondo, prima che qualcuno riuscisse a ricomporsi e a rispondere “mai”, lo sgomento generale si è tagliato con il coltello).
Mira è convinta che presto andrà in pensione grazie al suo investimento in Bitcoin ed è anche convinta che la sua ricchezza sarà perfettamente conseguente a un’idea di bene comune. I Bitcoin maximalists uniscono al denaro passione e ideologia ed è per eccesso di passione che non apprezzano le altre tecnologie che negli anni si sono sviluppate da Bitcoin e che hanno aperto la via al Web 3.0: altre digital currency, altre blockchain che supportano la finanza decentralizzata, Nft e metaversi decentralizzati. I “maxis” (come si chiamano amichevolmente) sono però solo una fetta della popolazione crypto, che invece per la maggior parte immagina la totalità di un web che non esercita controllo sui dati degli utenti e libero da autorità centrali. Mentre Mira evangelizzava un cerchio di persone sedute alla mia sinistra su metodi di consenso e privacy, una sera, un giovane algerino che diceva di lavorare per Facebook teneva banco nel mio gruppetto mimando con enfasi la forma e l’uso degli occhiali per vivere nel metaverso che Mark Zuckerberg sta sviluppando e che saranno pronti tra tre o cinque anni. Ho sentito qualcuno dietro di me, e non era un Bitcoin maximalist, commentare «ma lui che ci fa qui?», mentre la mia vicina, Star, una programmatrice entusiasta di blockchain e tecnologie oltre la blockchain per decentralizzare il mondo, esponeva con grazia e carisma dubbi più specifici sulla visione zuckerbergiana. Per il Web 3.0 i colossi del web centralizzato come Facebook (Meta) rappresentano infatti non solo un mondo superato, ma soprattutto, eticamente, il male.
Star era appena tornata da un DevCamp dedicato al perfezionamento di un framework per sviluppare app peer-to-peer decentralizzate. «C’era gente di ogni tipo», ci raccontava, «donne, uomini, ventenni, settantenni, e un’energia positiva pazzesca, perché tutti erano lì con l’idea di rendere il mondo un posto migliore». Secondo i creatori di quel framework, una tecnologia che perfezioni al massimo la decentralizzazione permetterebbe di mettere in pratica idee come garantire la trasparenza nella supply chain, gestire un sistema finanziario indipendente dalle banche, condividere energia autoprodotta attraverso un network di utilizzatori e produttori alla pari. Mentre tornavo verso casa in bicicletta con l’immagine di questa Woodstock di informatici ancora davanti agli occhi, mi ha attraversato la strada un ragazzo dai tratti mediorientali e lo sguardo un po’ alienato e un po’ insolente, che ho riconosciuto come un altro frequentatore del Blockchain Center. Ho inchiodato, l’ho salutato e lui mi ha detto, senza cambiare espressione, che era passato solo per chiedere previsioni sul prezzo di Bitcoin. In verità, c’è un po’ di degen in ogni crypto entusiasta: qualcuno non nega, ogni tanto, che il mercato sia in bolla; tutti riconoscono l’hype. Richard, l’organizzatore del Bitcoin happy hour, che si è completamente votato al mondo crypto da anni, una sera ci mostrava gli Nft che aveva comprato per speculare, confessandoci di aver fatto 10x con un jpeg di un rettangolo giallo tinta unita. Ne abbiamo discusso a una cena di no-coiners con Star (che nel frattempo, dopo uno scambio di email sul tema app decentralizzate, è diventata mia amica): «C’è hype», abbiamo ammesso di fronte alle perplessità degli altri, «ma è ancora così presto», ha precisato Star, «siamo ancora alla fase del dial modem!». Ed è la prima volta che qualcuno riesce a credere che il wild wild west della corsa all’oro sia anche la terra promessa della realizzazione di un bene universale.