Attualità

Christian Lacroix

Lo stilista crea una capsule per Elsa Schiaparelli: incontro tra giganti del passato per prevedere il futuro. E regalarsi una nuova carriera.

di Manuela Ravasio

In anticipo di quarant’anni, Place Vendôme al numero 21 era quello che New York avrebbe scoperto con le lenti e la stagnola argento di Andy Warhol: la Factory di serate che a Parigi chiameremo les soirées. Tra le lunghe sedute di menti a confronto – si parla di dialoghi tra Man Rey e Giacometti – Elsa Schiaparelli teneva banco con seducente fare altoborghese in una paese straniero dove il suo accento romano strideva e le case non erano arredate come il grande palazzo di famiglia, Palazzo Corsini dove il padre si era insediato come direttore della biblioteca dell’Accademia dei Lincei. Quel palazzo parigino dove la minuta Elsa riceveva Dalì e studiava i bustier della concorrenza, tale Coco Chanel, era e sarebbe rimasto il luogo più strategico di tutta Parigi. Place Vendôme è una delle poche piazze parigine dove i colori si confondono in un solo magma: il colore della città, ovvero grigio-tortora la sera illuminato dagli enormi lampadari che si intravedono dalle portefinestre. Forse per questo la nipote di Giovanni Schiaparelli, l’astronomo che ha regalato all’umanità la leggenda della sopravvivenza sul pianeta rosso, dopo aver guardato a lungo la piazza grigia ha inventato il fucsia, un colore che non esisteva. Elsa Schiaparelli deteneva uno dei più bei palazzi dell’intera città e lo sapeva. Per questo lo adornava di persone e sculture allo stesso tempo, tentava di coordinare estro e immaginava il futuro spingendo l’asticella sempre più in alto, dove le donne non vestivano più cappelli per dovere ma per volontà e sedevano nei salotti appoggiate a grandi sfingi di ceramica e non costrette dall’etichetta con i polsi sul tavolo del burraco.

Prima che la casa dove l’italiana ha insegnato ai francesi a far dialogare arte e moda riaprisse i battenti, nel 2005 a qualche arrondissement di distanza un couturier cercava di seguire le orme di Elsa

Poi il fucsia è sparito, gli specchi che rivestivano le pareti delle le sale sono stati coperti, mentre i grandi divani giallo limone sono rimasti senza ospiti. La morte di Elsa Schiaparelli non ha certo spento Place Vendôme, l’ha solo riportata al suo colore originario. Quando lo scorso anno Diego Della Valle con il gruppo Tod’s che ha acquistato il brand, la prima cosa che ha fatto è stata riaprire il palazzo di Elsa. E dopo la sorpresa e il piacevole soggiorno amarcord, le voci sull’eredità della stilista sono tornate a farsi sentire. Prima che la casa dove l’italiana ha insegnato ai francesi a far dialogare arte e moda riaprisse i battenti ai visitatori, nel 2005 a qualche arrondissement di distanza, in rue Charlot, un couturier che annusava la crisi cercava di seguire le orme di Elsa. E poi sarebbe finito nello stesso, agognato, palazzo. Era Christian Lacroix, che lanciava la moda dei boutique hotel, categoria “confetto” della ricezione alberghiera, ovvero ogni suite realizzata con una zuccherosa favola diversa e su misura. L’ha chiamato Petit Moulin e in pochi anni molti hanno emulato lo stilista. Quattro anni dopo quell’intuizione imprenditoriale Christian Lacroix sarebbe stato massacrato dalle pagine di economia e pianto da quelle del fashion system. Il crack della sua linea nata nel 1987 avrebbe dato inizio a una sequela di piccoli cedimenti nel mondo parigino. Ma il suo fu di sicuro il più drammatico.

Viso non proprio da belle notti parigine, guance paffute e larghe sciarpe ad adornarne il collo, Christian Lacroix aveva dalla sua tutto l’appoggio possibile della stampa: un anno prima del suo debutto solista come couturier dell’omonimo marchio il New York Times lo aveva investito del profetico ruolo di “salvatore della couture”. Poi era arrivato l’exploit per questo stilista cresciuto a studiare critica museale, e perennemente debitore dell’Opera di Parigi, amante dei costumi di scena, anche quando finivano su grandi top model dalle forme pin-up come Elle MacPherson. Una fotografia di Irving Penn è il racconto più aderente alla realtà di questo uomo: con panciotto damascato e cappello di paglia da coltivatore di rose alle porte di Arles (dove è nato e cresciuto) il figlio di un ingegnere che si è sposato la sua segretaria guarda in faccia l’haute couture fiero di sé. È il 1990 e tutti vogliono sposarsi in Christian Lacroix. Anche se non è come Yves Saint Laurent: non ha quell’allure da maledetto dalla pelle di porcellana, è un uomo che finisce sulle pagine dei gossip perché strappa da un matrimonio tranquillo Françoise Rosenthal che lascia immediatamente il marito per seguire lo stilista più apprezzato di Parigi. Uno che nonostante il pieno supporto di Bernard Arnault si ostina a dichiarare «Non sono un parigino io, sono del sud, di certo non dentro il jet-set». Poco importa che vesta Madonna per i tour e che le attrici in odore di Oscar indossino scaramanticamente e le sue creazioni.

Christian Lacroix si sente uno straniero nella sua stessa nazione, come un romano in un salotto parigino, capitato lì perché riconosciuto superiore alla media e in grado di far dialogare arte e moda in un unico registro. Forse è per questo suo passato che Lacroix è stato scelto come nuovo, primo, rieditore del grande passato di Elsa Schiaparelli. Un provenzale innamorato delle stampe e della seta che alla prossima Haute Couture di Parigi presenterà quindici abiti con il marchio di Elsa Schiaparelli. Lontani gli anni (il 2001) in cui tutte le hostess di Air France si strizzavano nelle divise disegnate da Lacroix, il destino di questo stilista si arricchisce di un ruolo complesso. Quello di far rivivere l’epoca della Schiap per lo stilista potrebbe essere un nuovo cammino in una carriera (in)esplosa che l’ha travolto e da cui si è risollevato a fasi alterne. Nel 2005, l’anno di apertura del suo hotel che ha fatto scuola,  e in netto anticipo sui desideri fashion del Qatar, Christian Lacroix riceve la proposta di acquisizione del proprio brand da parte della figlia del presidente dell’Uzbekistan. Lui declina con un laconico «preferirei averla come cliente invece che acquirente» e le nuvole grigie sul suo atelier sembrano dissolversi salvo ripresentarsi nei panni di Sotheby’s nel 2010 quando la casa d’asta confisca tutti i beni dell’atelier di Lacroix. Lo stilista sarà il primo di una serie di grandi tributari dell’opera di Elsa che vedranno la luce in un anno in cui Della Valle punta decisamente sul grande passato della maison “italiana in terra straniera”. Mentre le voci di un dimissionario Marco Zanini (da Rochas) alla direzione del prêt-à-porter della linea Schiaparelli si susseguono, il compito di Lacroix si riavvicina a quella premonizione firmata New York Times nel 1987: «Lacroix salverà la couture». A partire dai grandi mostri sacri del passato. Non importa che il suo brand sia andato a picco e risorto grazie a una catena di licenze (ultima quella di una collezione di pelletteria per il mercato nord americano a opera dei fratelli Falic, mentre si conferma la licenza maschile a Lubiam), il Cavaliere della Legion d’Onore riparte dai tromp l’œil disegnati da Dalì per far splendere la propria corte.