Attualità

Il caso Buzzfeed

Trump l'ha definito «una montagna di spazzatura», Buzzfeed se l'è appuntato sul petto come una medaglia. La politicizzazione di un media un tempo fiero della propria neutralità.

di Paola Peduzzi

Siamo «una montagna di spazzatura», dicono leggeri i giornalisti di Buzzfeed, portandosi addosso l’insulto trumpiano come se fosse uno status onorifico: se Trump ti detesta non puoi che essere uno bravo. Sullo shop di Buzzfeed si può comprare un cesto per la spazzatura, una maglietta con il celebre insulto, adesivi ironici, con i gattini naturalmente. I parametri si stanno ribaltando, nel nuovo disordine americano, e così se il presidente non ti vuole alle conferenze stampa, se ti punta il dito addosso e ti dice «tu sei fake news!», diventi improvvisamente una star, un altro odiato dall’odiatore in chief, ci si costruiscono carriere così. E infatti partecipare all’incontro quotidiano dell’amministrazione con i giornalisti è come avere un ruolo in una serie tv: quel che era un appuntamento di routine di cui ci si accorgeva appena ora è uno spettacolo seguitissimo, una media di 4,3 milioni di spettatori al giorno, il 10% in più rispetto al passato, con quel Sean Spicer come protagonista che sembra così inadeguato da fare ormai tenerezza (a Trump non piace come si veste, non piace che venga imitato da una donna al Saturday Night Live, non piace che non difenda l’operato presidenziale con sufficiente cocciutaggine).

I giornali e i giornalisti si sono attrezzati per questa nuova era che inizia, ci sono passaggi di testata (oggi se sei antitrumpiano scappi dal Wall Street Journal, per dire) e nuovi team editoriali che lavorano per capitoli trumpiani, senza sosta. E poi c’è chi già s’è imbattuto nel dilemma dei dilemmi e ha fatto una scelta contestatissima e da allora la difende e investe su altre inchieste, la parola d’ordine è senza tregua: così si lavora oggi a Buzzfeed. Ora, Buzzfeed era famoso per i gattini, per i listicle più improbabili, dai messaggi sbagliati che i figli mandano ai genitori, e viceversa, alle scene di sesso meno erotiche della storia. Ma questa era una percezione, cioè i gattini e le liste c’erano e ci sono, ma erano il contorno acchiappatraffico di un outlet che stava invece investendo su politica, attualità, guerra (Mike Giglio, per dire, ha pubblicato dal fronte iracheno-siriano reportage imperdibili): è Buzzfeed News. Il direttore è Ben Smith, un newyorchese tostissimo che ha lavorato per molti quotidiani – anche europei, nei Paesi baltici: sua moglie è lettone – e che nel 2007 è approdato a Politico, diventando uno dei reporter più seguiti durante le elezioni del 2008.

GettyImages-605802846

Per combattere le fake news che imperano nel mondo trumpiano, Ben Smith si è ritrovato a pubblicare a sua volta una fake news, contribuendo a fare esplodere il già accalorato dibattito su come diavolo si fa a fare giornalismo, e a raccontare quel che accade se il presidente degli Stati Uniti dice spesso mezze verità e se ai lettori non interessa per nulla il fact-checking. La “colpa” di Buzzfeed è di aver pubblicato l’ormai celebre documento in cui si descrivono le relazioni pericolose tra Trump e la Russia, gli incontri e gli affari intercorsi tra il presidente americano e l’entourage del presidente russo Vladimir Putin e si ipotizza la possibilità che il Cremlino abbia raccolto materiale compromettente su Trump. È il celebre report sulla “golden shower” che Trump avrebbe organizzato in una suite moscovita che era stata occupata tempo prima dagli Obama soltanto come sfregio tardivo all’odiata Michelle. Molti degli incontri citati sono stati smentiti, Mosca ha assicurato di non avere alcuna informazione compromettente sull’amico Trump (Buzzfeed dovrà anche rispondere in tribunale: è stato citato in giudizio da un russo citato nel dossier), mentre la spia inglese che ha preparato il dossier ha lasciato il gatto dal vicino ed è scomparso (come biasimarlo: altri due agenti russi ritenuti colpevoli di aver passato informazioni su questa faccenda sono stati arrestati, un altro invece è stato trovato morto nel suo appartamento).

Probabilmente questo dossier è davvero una fake news. Così Ben Smith ha dovuto spiegare perché ha deciso di pubblicare il dossier, sapendo che non era stato possibile verificare molte delle cose contenute in quelle pagine: non ci metteremo mica a combattere i falsi con altri falsi, vero?, gli ha chiesto Chuck Todd della Cnn. Ben Smith ha spiegato la sua decisione così: quel dossier circolava nei palazzi di Washington da mesi, ne parlavano tutti, anche i trumpiani l’avevano visto, anche gli obamiani e i clintoniani, insomma era un “buzz” di quelli che non puoi ignorare. Pubblicandolo ho fatto un servizio pubblico, ha sostenuto Smith, cioè ha fatto leggere a tutti quel che si stava leggendo soltanto nel palazzo, non è a questo che serve l’informazione? Nella ricostruzione fornita dal direttore di Buzzfeed e dal management della pubblicazione – in particolare Jonah Peretti, che ha fondato il sito nel 2006 ed è l’attuale Ceo – sembra quasi che la pubblicazione del report sia stata fatta per colmare il gap esistente tra élite e popolo, una mossa populista e antipopulista assieme, quasi un eroismo insomma.

BuzzFeed Presents The Buzzies

I trumpiani non l’hanno presa bene, e da quel momento Buzzfeed è diventato un altro nemico dell’amministrazione, una «montagna di spazzatura» (il copyright è di Donald Trump in persona) da denigrare e ostacolare in tutti i modi. Già durante la campagna elettorale, c’erano stati parecchi scontri. A Buzzfeed è cresciuto Andrew Kaczynski, ora passato alla Cnn, che con un team di tre persone ha creato i KFile, un fact-checking permanente, che tra le tante cose rivelò – sarebbe meglio dire: ricordò – che Trump aveva sostenuto l’intervento in Iraq durante un’intervista pubblica, anche se il presidente non l’ha mai ammesso. Smith – che conosce da anni Steve Bannon, l’anima nera della Casa Bianca, e continua ad avere rapporti con lui – ha rifiutato durante la campagna la pubblicità dei repubblicani e di Trump, nonostante il modello di business di Buzzfeed si basi sulla pubblicità: non accettiamo spot dalle compagnie di tabacchi, spiegò, perché fanno male alla salute, e lo stesso principio vale per Trump.

La politicizzazione di un media che va fiero della propria neutralità potrebbe essere pericolosa: a differenza degli altri quotidiani che stanno formando team dedicati a sviscerare e denunciare il trumpismo, Buzzfeed vive dei 400 milioni che gli investitori hanno messo all’inizio e delle entrate della pubblicità. Non altro, ed è per questo che Peretti, all’inizio dell’avventura, non aveva previsto una sezione News, ma si era dedicato ai meme e alle storie virali, all’entertainment insomma: nel 2012 sono arrivate le notizie, e da allora l’investimento riguarda soltanto quest’area. Dall’elezione di Trump a oggi sono stati assunti circa venti giornalisti, tra cui un ex del Wall Street Journal e un premio Pulitzer del 2016 vinto nella sezione giornalismo investigativo. L’ultimo progetto si chiama TrumpWorld, è un’enorme mappa interattiva che segnala le connessioni tra il business del presidente e i suoi uomini, «per comprendere meglio questa nuova amministrazione». Chi ha informazioni al riguardo può mandarle a Buzzfeed, la mappa si costruisce dal basso: anonimato e protezione sono garantiti, ci sono tutte le istruzioni da seguire, anche se ormai far parte della «montagna di spazzatura» è quasi un vanto.