Attualità

Bere coca cola in Birmania

Prima tappa di un viaggio asiatico, tra globalizzazione, luoghi comuni e feticismi neo-romantici

di Massimo Morello

Inauguriamo oggi una serie estiva di tre articoli dal sud-est asiatico, un mondo affascinante e in continua trasformazione, che vanta molti nostalgici (occidentali) dei bei tempi andati. Storie di globalizzazione e di feticismi neo-romantici, di modernità e di “orientalisti per caso”.

«La purezza. La Birmania sta perdendo la sua purezza».
«Le luci. Quello che mi ha colpito sono state le luci di Bangkok dopo aver lasciato Rangoon al buio».

La prima frase è di un giovane fotografo appena rientrato a Bangkok dalla Birmania.
La seconda è di Aung San Suu Kyi, appena arrivata a Bangkok dalla Birmania in occasione del World Economic Forum. Il suo primo viaggio all’estero dopo ventiquattro anni, la maggior parte agli arresti.

«Questa è la Birmania e sarà diversa da ogni altra terra che tu possa aver conosciuto», scrisse Rudyard Kipling nelle sue Letters from the East (1898). La Birmania (o Myanmar: anche l’uso del nome ha perso il suo valore di scelta di campo), potrà apparire sempre meno diversa.

E’ un processo storico ormai ineluttabile, avviato, tra infinite e giustificate diffidenze, circa due anni fa con una road map verso la democrazia (sia pure secondo i codici e i limiti asiatici). Il suo demiurgo è il presidente Thein Sein, già paragonato ad altri traghettatori di sistemi come Mikhail Gorbachev e il sudafricano F.W. de Klerk e addirittura proposto come Nobel per la pace.

Se quest’ultima candidatura può apparire un’ipotesi fantapolitica, il processo storico birmano sta materializzando una nuova versione dello scontro culturale. Non tra civiltà, ma tra coloro che ne interpretano il cambiamento. Il presupposto è sintetizzato in una nota del Fondo Monetario internazionale secondo cui il paese può essere “la prossima frontiera economica in Asia”.

«La Pinya Company (maggior produttrice di bibite del Myanmar) comincerà a importare alcuni prodotti della Coca Cola dalle fabbriche delle nazioni vicine e distribuirli in tutto il paese. Intanto inizierà la costruzione di fabbriche locali» ha dichiarato un uomo d’affari birmano che preferisce mantenere l’anonimato. L’obiettivo della multinazionale di Atlanta è di «contribuire a lungo termine allo sviluppo economico del paese». Nel frattempo è già arrivata la sua maggiore concorrente, la Pepsi.

«Ci ispiriamo alla musica di Britney Spears» dice Ah Moon, una delle Me N Ma Girls (nome che appare birmano e suona come Myanmar Girls), band di cantanti-ballerine selezionate dalla coreografa australiana Nicole May in una specie di Got Talent messo in scena a Yangon.

Da materializzazione di un mondo governato da un Grande Fratello come il generale Than Shwe, che pensava d’essere la reincarnazione di U Aung Zeya, il vittorioso, fondatore dell’ultima dinastia Birmana, la la nazione sembra avviata a divenire l’ennesimo scenario del Grande Fratello televisivo. Sono già sbarcati i Mad Men – come furono definiti negli anni ’50 i pubblicitari di Madison Avenue. Nel maggio scorso ha aperto i suoi uffici di Yangon la Ogilvy & Mather, una delle agenzie pubblicitarie globali.

Insomma, come teme il nostro fotografo, la Birmania perderà la sua purezza. Se poi aggiungiamo che, dopo l’annuncio della sospensione delle sanzioni Usa, sembra prossima l’apertura dei McDonald’s e i Kentucky Fried Chicken, la polpetta e il pollo fritto che “incarnano” il demone del consumismo, c’è davvero da credere che la Birmania sia definitivamente passata dalla tirannide del Tatmadaw (l’esercito, che tuttora controlla il parlamento) a quello della globalizzazione. E se i palazzi governativi di Nay Pyi Taw, la nuova capitale-bunker edificata nel centro del paese richiamavano le immagini di Apocalypto (così apparvero ai pochi giornalisti che riuscirono a visitarla), i nuovi mostri architettonici sono gli shopping-mall in stile cinese contemporaneo (molte colonne, colori pastello, grandi vetri azzurrati).

Seguendo il filo di questi paradossi ci si dimentica che sino a poco più di un anno fa la Signora Aung San Suu Kyi era ancora agli arresti. Pochi sanno che l’appellativo con cui è ormai nota, Daw (The Lady, per gli occidentali e dal film di Luc Besson) era sì la forma di rispetto con cui ci si rivolge a una donna di rango, ma anche un modo per non pronunciarne il nome. «La signora» si diceva, abbassando la voce e guardandosi attorno.

Oggi siede in Parlamento e nel 2015 potrebbe essere il nuovo presidente. Sino allo scorso anno i suoi libri o le sue foto giustificavano l’arresto, oggi sono venduti liberamente. Non solo, cedendo al “perverso” meccanismo del marketing politico, le magliette, i cappellini, i distintivi con l’effigie della Signora o il pavone che è il logo del suo partito, la National League for Democracy, sono tra i souvenir più richiesti dai turisti che si stanno riversando in Birmania. Nella scorsa stagione invernale il tasso d’occupazione degli alberghi è stato dell’80% e nell’immediato futuro sarà più difficile trovare una camera che ottenere un visto.

Nella mente di quei viaggiatori (i semplici turisti sembrano scomparsi) ecco che tutto ciò diviene motivo di rimpianto. La Birmania è lo scenario perfetto per le crisi di nervi di un neo-orientalismo che confonde i sogni di esotica lontananza celebrati dalla letteratura coloniale, trasformandoli in una realtà da paradiso perduto, popolata da uomini e donne in longyi (il tradizionale capo d’abbigliamento birmano, una sorta di sarong), tristemente destinati a essere sostituiti da jeans. Con orrore, quindi, leggeranno la dichiarazione di Wai Hnin, una delle Me N Ma Girls: «Quello che ci ha colpito, quando siamo andate in tournè fuori della Birmania è stato il modo di vestire. Le ragazze hanno un look fantastico».

Chi giudica questo fenomeno come una contaminazione pericolosa dimentica che, prima dell’avvento della dittatura militare, nel periodo tra l’indipendenza e il governo militare (1948-1962), la Birmania era una delle nazioni più ricche, colte e “occidentalizzate” dell’Asia. «Mi sono laureato a Rangoon» è una frase che gli anziani professionisti della diaspora birmana ripetono con orgoglio.

Il problema reale, come ha sottolineato la stessa Aung San Suu Kyi, non è lo sviluppo, ma la gestione dello sviluppo. La Birmania, infatti, potrebbe trasformarsi nel Far West dell’Asia, dove gli sceriffi sono corrotti e le imprese sono in mano ai clan legati all’esercito, personaggi come Tay Za, tycoon che controlla il settore turistico (linee aeree interne, alberghi) e si è assicurato l’appoggio del regime facendo da intermediario per l’acquisto di Mig 29 ed elicotteri dalla Russia.

«Adesso che finalmente ci stiamo aprendo vogliamo essere sicuri di farlo nel modo giusto», ha detto la Signora. Ma è la Signora per prima ad affermare il valore della globalizzazione come fenomeno storico che ha fatto della Birmania il perno culturale tra oriente e occidente, chiave di volta nell’evoluzione geopolitica dell’Asia.

Per la cronaca: nel 1927 la Birmania fu uno dei primi paesi asiatici dov’era possibile bersi una Coca Cola.