Attualità | Coronavirus

Come stanno gli anziani?

È una domanda che forse non ci siamo fatti abbastanza.

di Arianna Giorgia Bonazzi

Una donna affacciata al balcone di casa, Barcellona, 26 aprile 2020. Foto di David Ramos/Getty Images

Durante le prime settimane di chiusura delle scuole in Lombardia, coi miei figli abbiamo intervistato una quantità di compagni di scuola tra i sei e gli undici anni, e, alla domanda sulla paura, quasi tutti hanno risposto di non averne, perché “hanno sentito che questo virus non colpisce i bambini”. La cosa mi ha stupito parecchio, perché invece molti genitori parlavano della nostalgia dei nonni come di un vero e proprio trauma capace di nutrire gli incubi notturni. Eppure, nessuno di quei bambini un po’ egocentrici aveva pensato di poter temere per qualche parente anziano. Alessandro Cattelan, in un tweet, ribadiva, traslata ai trentenni, l’idea dei ragazzini: tanto panico, ma la cosa non ci riguarda. Nei giorni seguenti, molti amici facevano post dall’intento comico contro tutti gli anziani che continuavano a uscire di casa e a sputacchiarsi con le dentiere a pochi centimetri di distanza. In ufficio, prima del lockdown totale, qualcuno addirittura si scagliava contro queste palle al piede che costringevano i teenager a casa, e qualcuno avrebbe volentieri sacrificato il padre cardiopatico in cambio delle maturità del primogenito.

Eppure, nonostante ci fossero loro, gli anziani, al centro dell’emergenza sanitaria causata dal Coronavirus, siccome l’auto narrazione è tutta appannaggio dei giovani, poche volte in questi mesi ho sentito raccontare come stanno e cosa fanno loro, i vecchi. Si dice che sui bambini si è taciuto, ma questo presunto silenzio è così denunciato che ormai è diventato un chiasso. Penso che perfino il punto di vista delle piante sia stato più trattato, con tutti gli status millenaristi sull’avanzare imperterrito della natura, o il punto di vista del biologo Stefano Mancuso, che ha paragonato l’umanità reclusa al regno vegetale, fermo e capace di connettersi solo attraverso una rete sotterranea di radici.

Mentre mi chiedevo come se la stessero passando i coetanei dei nostri genitori, mi sono ritrovata appassionata alla serie tv Netflix Il metodo Kominsky, in cui un gruppo di anziani vedovi e malati lottano ancora in modo commovente per garantirsi l’amore, l’agiatezza, il successo, la felicità. Ho iniziato ad alternare gli aperitivi alcolici virtuali delle 7 a chat con nonni, insegnanti in pensione, amici over 65. Paradossalmente, mi sono sembrati proprio loro, quelli più capaci di trasmettere o simulare serenità, quelli che meno volte avevano cliccato sulla app della farmacia per farsi recapitare un termometro, i più rassegnati e i più rispettosi dei tempi lunghi della ricerca scientifica, sebbene avessero meno anni davanti.

Mentre noi rodevamo perché chissà quando avremmo potuto volare a New York, o perché avevamo già prenotato la tal vacanza, o perché loro, i vecchi, non avrebbero più potuto accorrere a tenerci i figli durante una festa, loro invece – forse assurti, complice la saggezza anagrafica e pandemica, a un altro livello di consapevolezza, dove il tempo è merce in saldo – si proiettavano volentieri sul Natale 2021, quando finalmente avrebbero potuto riabbracciare il nipotino, al cui residuo profumo di lattante avevano ormai rinunciato.

Ovviamente, non tutti gli intervistati del mio campione sono rientrati con agio nel confortante profilo che avevo ritagliato per loro. Una donna anziana appena uscita da una relazione sentimentale passava il tempo della quarantena a guardare compulsivamente gli accessi Whatsapp dell’ex e le serie tv romantiche, piangendo e sgranocchiando, e certi giorni invece si vestiva tutta di rosso e faceva 10 chilometri girando in tondo. Invidiava le coppie che si erano conosciute all’inizio del 2020, e che magari si erano ritrovate bloccate in qualche parte remota del mondo, diciamo a Dubai, immerse nel confino del sentimento. Secondo lei, nulla avrebbe più potuto recuperare le occasioni perse della sua vita, e quindi la quarantena era solo un’enorme cassa di risonanza dello stato d’animo della delusione e del rimpianto, sui quali discuteva settimanalmente con la terapista, via Skype. Non aveva nessuna vera fretta di tornare a uscire e confrontarsi col mondo.

Due uomini dal profilo completamente diverso, uno del nord e uno del sud Italia, uno separato e l’altro sposato da quarant’anni, ammettevano senza vergogna che le loro vite non erano poi tanto cambiate: anche prima, non uscivano quasi mai, l’uno preso in lavori di bricolage e l’altro in partite di carte al computer, e per fare movimento usavano già uno la cyclette e l’altro il giardino della villetta. I nipoti li avevano all’estero, e anche prima si facevano portare spesso frutta e verdura da un garzone. A uno dei due mancava un po’ la spedizione al giornalaio e al pescivendolo, all’altro invece i cicchetti con gli amici in osteria, all’ora del tramonto. Non avevano paura perché appunto non uscivano mai, si erano procurati le mascherine per la fase 2, ma – per ragioni opposte alla donna sopra – non smaniavano come noi per sapere a quanti metri da casa avrebbero potuto spingersi e in quale giorno esatto di maggio; erano nati negli anni Quaranta e le vacanze non erano mai state parte del loro orizzonte.

Una donna sola, invece, odiava la sua casa perché aveva dovuto trasferirvisi dopo il divorzio, e pertanto a malincuore aveva dedicato il mese di marzo a pulirla nervosamente da cima o fondo, non con l’amore dei moderni panificatori pieni di like, né col senso del magico dell’intellettuale che puliva il pavimento per la prima volta come in un gesto rituale: l’aveva fatto per cieco senso di dovere e di sopravvivenza, e per il resto del tempo, privata dei suoi svaghi principali (l’università della terza età, gli appuntamenti dall’avvocato divorzista, i concertini nelle chiese) si dedicava a eludere la sorveglianza della polizia per raggiungere la casa della madre vecchissima, con la quale parlava in modo generico ma infervorato dell’inettitudine della classe dirigente, mantenuta dalla povera gente come loro. Un anziano professore si preoccupava tutto il giorno del futuro dell’umanità, assumendo sempre nuove rughe sul volto chino nel Financial Times, ma poi cercava di sorridere alla moglie, che invece era immersa nell’euforia della cordialità da balcone e da ritorno al piccolo mondo antico.

C’era poi un’altra donna, una fisioterapista di campagna riconvertita negli anni Duemila a pratiche orientali per rilanciarsi sul mercato, che invece si sentiva molto coinvolta dai risvolti ambientalisti del Coronavirus, e allora riprendeva contatti con vecchi amici tipo me (usando il filtro quarantena di Zerocalcare), per convincerli che il virus era stato creato in laboratorio e che il 5G era responsabile della sua diffusone nel pianeta.

Immaginavo questi anziani molto soli nelle loro case ai capi opposti della penisola: quelli coi coniugi, che si rivolgevano la parola solo al momento della videochat coi figli, e quelli vedovi o divorziati che fantasticavano quarantene migliori a fianco dei loro compagni scomparsi e fuggiti. L’unica cosa che avevano in comune, e che in qualche modo li faceva rientrare nella mia strampalata teoria, era una minore furia di riaprire tutto e buttarsi nel futuro, una certa invidiabile atarassia, la tranquillità – ora che ci penso, anche un po’ sadica – di sapere che tanto i giochi erano fatti, che loro avevano vissuto, e già era un miracolo se non avevano preso la polmonite, se non erano di Bergamo, se erano ancora vivi.