Attualità

Aleppo prima di Aleppo

Come si viveva nella città più borghese, industriale e ricca della Siria prima che diventasse il simbolo della guerra.

di Anna Momigliano

Per il primo anno e mezzo della guerra civile siriana, Aleppo è rimasta relativamente tranquilla: «Il gigante addormentato della Siria», la chiamava al-Jazeera. Mentre le autobombe già squassavano Damasco; quando Homs e Idlib, città ribelli della prim’ora, già erano sotto il tiro dei bombardieri del regime Assad; mentre dalle regioni di Houla e di Hama arrivavano le notizie di massacri e rappresaglie; insomma quando la guerra civile, con tutte le sue odiose ricadute settarie, già dilaniava il Paese, sembrava che questa città di due milioni e mezzo d’abitanti, motore economico della Siria, fosse determinata a restarne fuori. Poi, nell’estate del 2012, è iniziata la battaglia di Aleppo, che da allora non è mai finita e forse sta volgendo al termine proprio adesso. È stata la sua posizione strategica, la vicinanza al confine con la Turchia, a fare di Aleppo uno dei snodi principali di questo conflitto: chi la controlla, controlla l’ingresso di uomini, cibo, armi e materiali dalla penisola anatolica. Ed è questo, forse, il paradosso di Aleppo: l’essersi tenuta fuori dalla guerra, per poi diventare il terreno di uno degli scontri più decisivi; l’essere diventata un caso a sé, qualcosa di “altro” rispetto alla Siria, proprio in quanto crocevia, e l’essere condannata a essere contesa tra regime e ribelli per la stessa ragione.

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Aleppo è una città sunnita, che di ragioni per nutrire risentimento contro il clan Assad ne avrebbe avuta più di una, ma che invece col governo siriano, prevalentemente alawita e sostenuto dallo sciita Iran, aveva trovato una quadra per convivere bene (sunniti e sciiti sono le due correnti principali dell’Islam; gli alawiti sono una sotto-categoria degli sciiti, molto minoritaria altrove ma importante in Siria). Le ragioni sono più antropologiche, cioè anche economiche, che politiche: Aleppo, come un tempo lo erano Venezia o Alessandria d’Egitto, era una città di commercio, dove nel corso dei secoli s’è costituita una borghesia mercantile, cosmopolita e sempre affaccendata, più interessata al vivere in pace e fare affari che alla politica. Dagli scambi commerciali sono nate le industrie (si stima che fossero circa 300 mila prima della guerra) e le tensioni tribali e religiose, del resto, giovano poco agli affari. «I ricchi industriali di Aleppo, un tempo rispettati e invidiati per la loro ricchezza, per il loro acume e per il loro legame con la dinastia al potere, sono a lungo stati visti come una categoria di siriani a parte», spiegava il New York Times.

Negli anni Ottanta, certo, anche Aleppo era stata interessata da una rivolta dei Fratelli Musulmani, repressa nel sangue da Hafez al-Assad, padre del tiranno attuale. Ma a differenza di quanto successo in altre città dove la repressione era stata peggiore, come Hama, negli anni successivi le élite di Aleppo hanno trovato il modo di riconciliarsi con il regime. Dopo avere eliminato i Fratelli Musulmani, Assad padre ha mandato in città predicatori sunniti più moderati (o, meglio, filo-governativi). Poi, il messaggio mandato alla classe dirigente di Aleppo è stato, parafrasando: “So di non starvi simpatico, ma se continuate a essere produttivi senza darmi fastidio non vi darò fastidio neppure io, anzi vi proteggerò; ah, già che ci siamo, vi ricordo che se io cado, qui si rischia la guerra civile e questo a voi non conviene”. Come ha riassunto, più elegantemente, il politologo libanese Imad Salamey: «Il regime si è comprato gli interessi commerciali dei sunniti».

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Anche sotto il pugno brutale degli Assad, che economicamente è stato un disastro per la nazione, Aleppo ha continuato a fiorire. Negli ultimi decenni, a dire il vero, le cose erano cominciate a peggiorare un po’: Bashar al-Assad, successo al padre nel 2000, ha disteso il rapporto con la Turchia, siglando accordi commerciali, così le importazioni a basso costo hanno messo in difficoltà la produzione locale; inoltre, dopo aver visto la sua poltrona vacillare con la Rivoluzione dei Cedri, dieci anni fa, Bashar ha iniziato a creare una classe di nouveaux riches più legati a doppio filo con il suo clan, e anche questo alla borghesia d’Aleppo non è molto piaciuto. Però questo non cambiava il dato di fondo, e cioè che alla borghesia d’Aleppo, cioè una certa borghesia sunnita, lo sgretolamento dell’ordine più di tanto non convenisse.

I primi disordini in Siria sono arrivati nel marzo del 2011, sull’onda lunga delle Primavere arabe, nella città di Daraa. Da lì, come si diceva, si sono diffusi a Homs, Idlib, nella provincia di Hama e, maggiormente a singhiozzo, a Damasco. Però non ad Aleppo, che anzi veniva derisa da manifestanti e ribelli come un bastione del sostegno al regime, sebbene “sostegno” fosse una parola grossa. Poi, nell’estate del 2012 la guerra arriva alle porte della città: a luglio i ribelli si scontrano con le forze governative e conquistano i primi quartieri orientali, poi ne prendono altri, continuano gli scontri: l’obiettivo è controllare le vie d’accesso alla Turchia. Nel frattempo, si diffondono i rapimenti; è in quel momento che comincia l’esodo della borghesia di Aleppo: chi può farlo se ne va. Due anni più tardi, il regime, forte anche del sostegno di milizie sciite arrivate da Libano e Iraq, circonda le zone della città in mano ai ribelli: è l’inizio di un assedio medievale, dove il piano è prendere per fame, sete e sfinimento. A ottobre di quest’anno i ribelli tentano una controffensiva, “la madre di tutte le battaglie” la chiamano, ma falliscono; le truppe di Assad continuano ad avanzare, ormai controllano la stragrande maggioranza del territorio. C’è chi dice che la fine della battaglia di Aleppo, se davvero arriverà, segnerà l’inizio della fine della guerra, ma intanto Aleppo non è più Aleppo da tanti anni.

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