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Damasco, raccontata da un italiano che ci vive

La Siria è in guerra da quasi cinque anni, ma nelle green zone della capitale la vita di tutti giorni continua, quasi indisturbata.

29 Febbraio 2016

«A Damasco, lo straniero dorme in piedi sulla sua ombra, come un minareto nel letto dell’eternità. Non gli manca un Paese. Non gli manca nessuno». Mamhoud Darwish, uno dei più celebri poeti del mondo arabo, racconta così la capitale siriana. Sullo sfondo delle sue parole, scorrono le immagini della Damasco pre-2011, nello splendido cortometraggio girato da un giovane siriano emigrato in Germania. Minareti, vie piene zeppe di persone, negozi, musei. Il tutto contornato da un cielo turchino, che si riflette sulle pietre lucide messe lì a tracciare le vie cittadine. Poi, puntini neri sfrecciano sopra la città, riportandoci alla Damasco e alla Siria di oggi. Quella dei bombardamenti aerei.

Eppure, la quotidianità della città non è stata cancellata. Esiste una green zone, una sorta di grande rione dove la guerra si sente, ma ancora non si vede. Sono i quartieri di Melki e Mezze, nella parte orientale della città. Questa non è la Damasco storica, non è l’area urbana dove avreste passato il vostro tempo se foste andati in Siria fino a qualche anno fa. Si tratta, piuttosto, della Nuova Damasco. Quella che ancora riesce a conservare una sua anima, provando a non fare caso a quanto avviene al di là del “confine” del quartiere.

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Mario vive qui, così come vivono qui una quindicina di altri italiani. Lavorano tutti per le varie Ong impegnate nella gestione della crisi siriana. Leggendo i racconti dalla Siria, verrebbe da pensare a una vita sotto scorta, chiusi in edifici blindati e in un perenne stato di tensione. Invece non è così. Alcuni sono ancora costretti a vivere al Dama Rose Hotel e in altri alberghi dell’area, ma si tratta di sistemazioni provvisorie. A breve arriverà l’autorizzazione degli organi di sicurezza e potranno trasferirsi in case private. Quanto meno in quest’area della città, la vita di Mario, degli altri italiani, delle centinaia di operatori internazionali e degli stessi siriani, scorre tranquilla. I bar e i pub spuntano come funghi, ogni tanto ci si imbatte in qualche concerto e se ci si vuole rilassare davvero, si può andare persino a vedere il nuovo film di Tarantino al multisala Cinemacity.

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La green zone è un’area abbastanza grande. «Potremmo paragonarla alla Roma interna alle mura Aureliane» mi dice Mario, ricordandomi le sue origini romane. Quindici chilometri quadrati di relativa tranquillità, da percorrere in lungo e in largo per respirare la Damasco che sta ancora in piedi. Mario a volte cammina per chilometri, anche se poi deve fermarsi quando si avvicina alla zona cuscinetto presidiata dai militari. L’ingresso per l’inferno. «Più ci si avvicina al confine con l’altra Damasco, più c’è rischio. Il colpo di mortaio è una cosa casuale e può arrivare in ogni momento quando sei lì. Meglio fermarsi.»

Le centinaia di forze militari dispiegate sono quelle del governo di Assad. La green zone è sotto il loro controllo, ecco perché resta vivibile. L’inferno dei sobborghi è spesso creato da questo stesso schieramento, che abbatte come birilli le case dove si pensa si nascondano i ribelli. Come se non bastasse, in una situazione di questo tipo ci si mette l’Isis: solo qualche giorno fa una serie di attentati suicidi hanno causato 142 morti e centinaia di feriti, colpendo la località di Sayeda Zeinab.

Come però ricorda un recente articolo dell’Independent, le persone della green zone «non stanno mostrando il loro amore per il regime di Assad né la loro ferocia nei confronti dei suoi nemici. Essi stanno dimostrando a se stessi che sono ancora vivi, che la vita familiare rimane, che la legge – nel senso di base della civiltà – deve sopravvivere».

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Nella nuova Damasco, insomma, si prova ad andare avanti. Una di queste sere Mario era ad un concerto di musica religiosa presso una vecchia chiesa appena restaurata, la Latin Church. «C’era tantissima gente, d’altronde qui la comunità cristiana è molto grande» mi racconta. «Si trattava di un gruppo di musica religiosa che sta facendo il tour di tutto il Medio Oriente e per la prima volta è venuto anche a Damasco».

Non si tratta di un evento straordinario. Il centro della Nuova Damasco pullula di locali e sale dove le band si esibiscono live, o dove ci si può imbattere in qualche dj-set. I più in sono lo Snaphsot, il Whisperer, lo Zodiac e lo Shalan – dove ogni fine settimana si riversano centinaia di giovani siriani, spinti da un senso di resilienza invidiabile. «I giovani cercano di essere spensierati e di metabolizzare questa situazione, il fermento della città riguarda soprattutto loro», mi spiega Mario. Un altro locale è lo Zeriab Café. Un po’ di tempo fa, il New Yorker ha raccontato questo crocevia di artisti e di persone comuni, dove tra una shisha e una carezza al gatto del proprietario si parla di politica e di musica, sorseggiando uno Screwdriver.

Il centro della Nuova Damasco pullula di locali e sale dove le band si esibiscono live, o dove ci si può imbattere in qualche dj-set

Sono i giovani i veri protagonisti dell’attivismo della green zone. Mentre in altri scenari di guerra dove è stato Mario veniva data maggiore attenzione a eventi più high class, a Damasco la dimensione culturale del 2016 si esprime sopratutto nella vita notturna. A contribuire a ciò è anche e sopratutto la chiusura di musei, biblioteche e del teatro, che costringe i ragazzi siriani a reinventarsi una vita culturale. La Nuova Damasco è una città per giovani, fatta dai giovani. Ma al di là di questo, mantiene anche un’impronta commerciale molto forte. Come mi racconta Mario, i negozi sono tutti aperti e si trova tutto ciò di cui si ha bisogno, il che fa quasi dimenticare il contesto in cui ci si trova. La sera, poi, si esce per una cena nei tanti ristoranti tipici del quartiere, dove bastano pochi euro per andarsene sazi.

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Damasco ha conservato il suo fascino. Ne è convinto Mario, che non si aspettava di trovare una città così viva. «Sono rimasto sorpreso e affascinato, il centro e la città vecchia di Damasco è bellissimo come e più di come me l’ero immaginato. Si è conservato benissimo».  La guerra lì fuori crea un paradossale effetto di valorizzazione di questo patrimonio, come se costringesse le persone a soffermarsi di più sui dettagli, sui tesori nascosti, tanto belli quanto minacciati dalla polveriera che li circonda. È proprio questo di cui parlava Mamhoud Darwish, quel patrimonio che porta lo straniero a innamorarsi della città e a non sentire la mancanza di altro, se non della stessa Damasco. Che questo avvenga ancora oggi, in una situazione di questo tipo, spiega meglio di qualunque frase il fascino della città. Un fascino che neanche 200mila morti e quattro anni di guerra civile sono stati in grado di cancellare.

«Damasco mi ricorda Beirut, anche se è molto più economica», mi dice Mario quando gli parlo del mio passato in Libano, e sottolinea lo shock nel passaggio tra le due città. Uno shock finanziario, ma resiste un filo rosso che unisce le due capitali. Entrambe martoriate dalla guerra, entrambe capaci di mantenere una propria identità anche nei momenti peggiori.

Quando vivevo a Beirut, l’orizzonte era costellato di gru e impalcature. Era in parte la ricostruzione post 2006, in parte quella voglia di emulare le grandi capitali dei Paesi del Golfo. Questa seconda è la parte meno bella che sta vivendo la città, quella che auguro a Damasco di non dover passare. Ma l’altra Beirut, quella che è sopravvissuta a decenni di guerre, attentati e tensioni, quella dei musei riaperti, delle case ricostruite senza cancellare i buchi dei proiettili, quella di Vinicio Capossela che va a suonare al Music Hall di Hamra, la Beirut di oggi insomma, è la dimostrazione che anche Damasco sopravviverà a tutto quello che sta sopportando e saprà ricostruirsi – mantenendo intatta la sua essenza.

Il racconto di Mario, i bar e i negozi aperti, i concerti e i dj-set e più in generale la resilienza dei giovani siriani di Damasco mi convincono di questo.

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