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È morto Robert Wilson, il regista che inventò l’opera teatrale totale Con spettacoli come Einstein on the Beach portò musica, videoinstallazioni e l’interdisciplinarietà a teatro, modernizzandone il linguaggio.
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In Nepal oltre il 70 per cento delle auto vendute è elettrico In soli cinque anni il tasso di auto elettriche in circolazione nel paese ha raggiunto quello di Norvegia e Singapore. 
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A Newton, in Massachusetts, i residenti stanno protestando perché è stata rimossa la bandiera italiana dipinta su una strada La linea tricolore era un simbolo storico: la sindaca ha difeso la scelta parlando di esigenze di sicurezza stradale.

C’è destra e destra

Una guida alle elezioni di domani in Israele. Dove la sfida è sempre più tra nazionalisti e religiosi, mentri i coloni fanno di tutto per darsi un tono cool.

21 Gennaio 2013

Domani si vota in Israele: si elegge la Knesset, il parlamento unicamerale, e di conseguenza il governo. Sono elezioni di cui si è sentito parlare relativamente poco, qui in Italia, dove pure in genere gli affari israeliani ricevono una discreta attenzione.

La ragione, forse, è che il risultato ad alcuni pare già scritto: assai probabilmente l’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu guiderà anche il prossimo esecutivo, sebbene con quale coalizione è più difficile da prevedere.

Un’altra ragione per cui le elezioni di domani appassionano poco (certamente meno di quelle che le hanno precedute) è che in Occidente prevale un diffuso pessimismo sul prossimo futuro di Israele: sul New Yorker David Remnick tracciava il ritratto, contemporaneamente empatico e disincantato, di una nazione dove il centro di gravità si è ormai spostato sempre più a destra – ossia dove le idee che un tempo erano considerate di estrema destra sono entrate a gamba tesa nel mainstream, e dove la buona “sinistra sionista” è in crisi strutturale – ma anche di un popolo il cui sentimento politico è dominato dalla sfiducia nei confronti della controparte palestinese e da una disillusione circa la possibilità di trovare una soluzione politica (anche alcuni israeliani confessano una certa disaffezione nei confronti di questa tornata elettorale, come ha fatto per esempio Sivan Kotler su Internazionale).

Dunque, si diceva, è una partita quasi tutta interna alla destra. Il che, in un certo senso, vuole dire tutto e niente, perché si tratta di un universo politico estremamente variegato – anche se non sempre le sfumature arrivano qui in Italia, come dimostra per esempio il fatto che spesso si tenda a confondere gli “estremisti nazionalisti” con gli “estremisti religiosi”, categorie che in realtà in Israele sono assai distinte e solo raramente si sovrappongono.

Ecco, dunque, un breve compendio della destra israeliana:

Likud
Ovvero i conservatori mainstream (che però ora sono sempre più vicini agli ultra-nazionalisti).
Il Likud è il partito dell’attuale premier Benjamin Netanyahu, ha le sue radici nel cosiddetto “sionismo revisionista” di Vladimir Jabotinsky, nato ai tempi del dominio britannico in contrapposizione con la dottrina socialista prevalente in Israele fino alla seconda metà degli anni Settanta. È un partito essenzialmente laico.
Con le colonie, ha un rapporto altalenante. Formalmente il Likud riconosce ai palestinesi il diritto di avere un loro Stato (seppure a determinate condizioni) e in passato leader conservatori hanno portato avanti negoziati con gli arabi (come Menachem Begin, che ha firmato la pace con l’Egitto) e ritiri territoriali (come Arik Sharon, che ha lasciato Gaza). Tuttavia Netanyahu nello specifico pare poco incline a fare concessioni – di lui lo stesso Obama ha detto: “Non ha capito cos’è nell’interesse di Isreaele” – al punto da alienare l’ala più moderata del partito. Inoltre si è alleato con i nazionalisti di Yisrael Beitenu.

“Israele è Casa Nostra”
Ovvero i nazionalisti “russi” che si danno un tono religioso, ma hanno rapporto difficile col rabbinato.
Yisrael Beitenu, letteralmente “Israele è Casa Nostra”, è il partito dell’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, che avrebbe voluto imporre un “giuramento di fedeltà” ai palestinesi con cittadinanza israeliana.
Lieberman è un immigrato dell’ex Unione Sovietica, si dichiara ultra-ortodosso e vive in una colonia della Cisgiordania. Ciononostante, l’elettorato di riferimento di Yisrael Beitenu non sono né i coloni, né tanto meno gli ultra-ortodossi, bensì gli immigrati russi. Molti dei quali non sono neppure riconosciuti come ebrei dal rabbinato israeliano (in genere perché la loro madre non è ebrea).
Yisrael Beitenu sostiene l’espansione delle colonie, il rafforzamento dell’identità ebraica di Israele (sebbene la loro idea di ebraismo sia radicalmente diversa da quella dei rabbini!), ma contemporaneamente vuole laicizzare alcuni aspetti dello Stato: per esempio vuole introdurre il matrimonio civile, che attualmente non esiste e permetterebbe a persone di religioni diverse di sposarsi.
Nonostante tra Lieberman e Netanyahu non corra affatto buon sangue, in queste elezioni Yisrael Beitenu si presenta in una lista unica con il Likud.

Shas
Ovvero gli ultra-ortodossi “orientaleggianti”, che però più che dai religiosi sono votati dai poveri.
Formalmente lo Shas è un partito ultra-ortodosso sefardita, ovvero che si rifà alla tradizione religiosa ebraica del Nord Africa e del Medio Oriente. Il suo leader spirituale è Ovadia Yosef, un anziano e carismatico rabbino nato in Iraq, ma la maggior parte di coloro che votano Shas sono di origine marocchina e yemenita. A ben vedere, non tutti sono necessariamente religiosi: lo Shas ottiene ampio consenso tra i ceti bassi urbani, anche perché gestisce un’ampia rete di servizi sociali. Infatti in queste elezioni lo Shas ha portato avanti una campagna pubblicitaria dove praticamente gli ortodossi non compaiono: tuttavia il bersaglio principale sono i russi di Yisrael Beitenu, accusati di “tradire la tradizione religiosa” di Israele.
Lo Shas non ha legami forti con le colonie e tende a occuparsi, più che di questioni territoriali, di affari religiosi e sociali. In passato si è alleato indistintamente con governi di destra e di sinistra.

La Casa Ebraica
Ovvero i nazionalisti-religiosi che sostengono le colonie e (novità) si sono rifatti il look
Se c’è una novità in questa campagna elettorale, questa è certamente la Casa Ebraica, ossia il partito dei coloni-nazional religiosi. Risorta dalle ceneri del defunto movimento dei settler (il Mafdal), la Casa Ebraica è guidata dall’astro nascente della destra israeliana, Naftali Bennett: 41 anni, nato a Tel Aviv da immigrati americani, con un passato di imprenditore hi-tech (è laureato in ingegneria informatica), Naftali Bennett è l’esatto opposto dell’archetipo del leader nazional-religioso israeliano. Pacato, affabile, smart, ha i modi urbani (nell’accezione europea del termine) tipici dei rampolli della Tel Aviv bene, porta una kippah, la papalina, appena percettibile e sta portando avanti una campagna mirata a un pubblico giovane e non necessariamente legato al mondo religioso e/o nazionalista.
In breve, sta cercando di convincere la borghesia urbana under-40, tradizionalmente il bacino di utenza della sinistra, che sostenere gli insediamenti e la linea dura con gli arabi è anche nel loro interesse.
Il suo spot recita: ci sono tre cose che non cambieranno mai: i Soprano non ritorneranno per una nuova serie; Rami Kleinsten (un cantante pop noto per la sua pelata) non avrà mai un afro; e non troveremo mai un accordo politico con i palestinesi…

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