Attualità

Che anno è stato per la moda

Il burkini, il power-dressing, Alessandro Michele e Demna Gvsalia, Beyoncé, il fast fashion: di cosa ha discusso il mondo della moda nel 2016.

di Silvia Schirinzi

Partendo dal presupposto che il 2015 è stato l’anno in cui la moda è morta, come ha sostenuto al di fuori di ogni ironia la trend forecaster (una che di mestiere studia le tendenze e cerca di anticiparle) Li Edelkoort con il suo Anti Fashion Manifesto, e che il 2016, beh, è stato il 2016, nel fare i conti all’industria della moda non dovremmo aspettarci chissà quali grandi notizie positive, no? Eppure, quello che si concluderà fra qualche giorno è stato un anno interessante, che ci ha dato la possibilità di discutere e riflettere su tante questioni: dalla crisi di sistema che ha colpito (in ordine sparso) le sfilate, moltissimi marchi e naturalmente i giornali, ai molteplici tentativi che sono stati messi in atto per arginare quella crisi e proporre soluzioni e modelli alternativi. È stato un anno in cui si sono fatte e disfatte parecchie cose, in cui molti designer hanno lasciato le case di moda per cui lavoravano e nel giro di pochi mesi hanno dovuto costruire il loro universo da un’altra parte: alcuni ci sono riusciti piuttosto bene, altri decisamente meno. È stato un anno in cui abbiamo parlato moltissimo di donne, vestiti delle donne e pubblicità per le donne, di burkini e del ritorno del tailleur pantalone, di Beyoncé e Hillary Clinton, di Maria Grazia Chiuri e Gigi Hadid; è stato l’anno in cui le copertine dei magazine hanno iniziato a fotografare modelli di bellezza alternativi, ma anche l’anno in cui molti giornali patinati hanno chiuso i battenti.

Per fare il punto dell’eredità che il 2016 lascia alla moda ecco allora un riassunto di tutte le questioni più importanti degli ultimi dodici mesi, e qualche spunto di riflessione su come affrontarle nel 2017.

Pepsi Super Bowl 50 Halftime Show

Le collezioni miste e immediatamente acquistabili

Nel 2016 si è tentato in molti modi di rispondere alla crisi di sistema che attraversa l’industria da un po’ di anni a questa parte: in molti hanno parlato di “nuovo ordine”, sottolineando come le sfilate semestrali e tutto ciò che vi ruotava intorno fossero ormai inadatte alle nuove esigenze dei marchi e dei loro clienti. Se il cambio della direzione creativa non ha sortito per tutti i marchi l’effetto desiderato (vedi Justin O’Shea da Brioni) e la girandola delle poltrone non sorprende più nessuno, due sono invece i cambiamenti più radicali che quest’anno abbiamo visto in atto, e riguardano entrambi proprio le passerelle. In molti, da Burberry a Vetements, hanno unificato le loro sfilate, presentando le loro collezioni uomo e donna con un unico, grande evento che non necessariamente coincide con il tradizionale calendario delle settimane della moda. In più, altrettanti brand hanno reso i prodotti immediatamente acquistabili: il caso più eclatante di see now, buy now è stata la collaborazione fra Tommy Hilfiger e Gigi Hadid, che ha registrato numeri da record. Come ha sottolineato Cathy Horyn su The Cut, però, non è una soluzione che va bene per tutti e in particolare i brand di fascia più alta devono ripensare ulteriormente le loro strategie per non perdere lo status e l’appeal acquisito negli anni. Mica facile.

Gucci, Vetements e Balenciaga

Ci sono poi alcuni marchi che nel 2016 hanno invece saputo consolidare lo status di cui sopra e sono diventati due casi di successo sia di pubblico che di critica. Alessandro Michele da Gucci e Demna Gvasalia da Vetements (e Balenciaga) sono gli estremi opposti che il sistema in crisi ha prodotto: opposti per il tipo di moda che disegnano, in realtà ben più vicini nell’approccio creativo di quanto non si direbbe a guardare i loro vestiti. Come ha raccontato Alexander Fury sul T Magazine lo scorso aprile, entrambi hanno saputo catturare, in maniera diversa, lo zeitgeist del periodo e sono riusciti a creare dei best-seller, capi e accessori (dal poncho antipioggia alle felpe per Vetements alle borse e i mocassini di Gucci) che hanno incontrato il gusto dei consumatori e hanno perciò venduto molto, come ogni amministratore delegato del fashion sogna. Entrambi, ma soprattutto Gucci, hanno lavorato benissimo sui social, sfruttandone tutte le potenzialità per allargare la “percezione” del marchio a un pubblico sempre più ampio e raccontarsi così in maniera innovativa, anche attraverso il coinvolgimento di artisti e celebrity. Entrambi, infine, hanno potuto contare su una controparte business eccellente: il fratello di Demna, Guram, e soprattutto Marco Bizzarri, presidente e CEO di Gucci, recentemente premiato come International Business Leader ai Fashion Awards di Londra dello scorso 5 dicembre.

Ieshia Evans

Political Fashion

Il 2016 è stato anche un anno in cui la moda si è occupata molto di politica e viceversa, sia per la concomitanza di eventi come il referendum sulla Brexit e le presidenziali americane, sia per l’irrompere di alcuni movimenti socio-politici che hanno finito per coinvolgere (com’è naturale) anche i vestiti. Lo ha spiegato bene Vanessa Friedman sul New York Times, a partire dalla bellissima foto di Ieshia Evans, quasi eterea in un lungo abito estivo, di fronte ai poliziotti in tenuta antisommossa a Baton Rouge, scattata durante le proteste seguite all’uccisione di Alton Sterling. Il movimento Black Lives Matter è stato il centro di un’importante discussione nell’opinione pubblica americana e non solo, e non è un caso che la tenuta con cui Beyoncé e il suo corpo di ballo si sono presentate al Super Bowl, che omaggiava le Black Panthers, abbia provocato accese reazioni. Anche la foto di Tess Asplund, che in Svezia ha alzato il pugno come segno di protesta di fronte a trecento neonazisti, ha fatto il giro del mondo. Abbiamo parlato molto anche di burkini e di libertà di scelta, nell’abbigliamento come nella vita: nel 2016 i designer hanno iniziato a disegnare hijab e abaya nel tentativo di conquistare un mercato finora piuttosto inesplorato e dalle potenzialità enormi, mentre Ibtihaj Muhammad è stata la prima atleta a competere per gli Stati Uniti indossando l’hijab e la vlogger Nura Afia la prima donna a comparire in hijab in una campagna di cosmetici, sempre in America.

Quest’anno, inoltre, si è parlato molto di costi umani e ambientali del fast-fashion, soprattutto in occasione della World Recycle Week lanciata da H&M lo scorso aprile. Recentemente, Marina Forti ha raccontato su Internazionale la storia delle operaie che lavorano nei magazzini appaltati da H&M a Stradella, mentre su Business of Fashion Helena Pike si è interrogata sul reale costo delle spedizioni veloci e delle nostre “nuove” abitudini di consumo. Hillary Clinton e Angela Merkel hanno riportato l’attenzione sul power-dressing, espressione che non sentivamo almeno dai primi anni Novanta. Il tailleur pantalone e le giacche con le spalle larghe sono ricomparsi sulle passerelle e se, per fortuna, sono rimasti solo Massimo Gramellini e pochi altri a credere che le donne perdono le elezioni perché non si vestono abbastanza da donne, il dibattito sulla rappresentazione femminile, in particolare nelle pubblicità, è più acceso che mai. Molti stilisti hanno poi preso una posizione riguardo a temi cruciali: la moda made in UK ha votato contro la Brexit, mentre quella americana, fatta qualche eccezione illustre come Tommy Hilfiger, si sta rifiutando di vestire Melania Trump e “normalizzare” così la presidenza del marito. E a proposito di first lady, ci mancherà molto una come Michelle Obama che, sfidando gli stereotipi, ha fatto delle scelte audaci in fatto di vestiti, come l’abito di Versace indossato alla cena di Stato con l’ex premier italiano e quello di Gucci di qualche settimana fa, appositamente disegnato per lei. Matteo Renzi, intanto, aveva preso l’abitudine di inaugurare la settimana della moda di Milano, evento fino ad allora pressoché ignorato dagli altri politici, come segno di sostegno del governo all’intero settore: chi vedremo a settembre seduto fra Giorgio Armani e Donatella Versace?

Le nuove sfide dei giornali

E poi ci sono i giornali, che fanno i conti con la flessione ormai cronica dell’editoria e la rivoluzione digitale. Sono stati molti i magazine che i grandi editori hanno deciso di chiudere quest’anno: basti pensare a Lucky Magazine e Self per Condé Nast e a Flair per Mondadori, di cui, almeno negli ultimi due casi, sopravviveranno le versioni online. E sono stati tanti i giornali che hanno drasticamente ridotto il loro organico, o sono in procinto di farlo: una delle poche certezze emerse dagli anni di profonda crisi, infatti, è che le redazioni devono cambiare in maniera radicale, se vogliono sopravvivere. Sono finiti i tempi in cui ogni testata poteva permettersi un team numeroso e totalmente dedicato: come spiega Jemma Brackebush su Glossy, oggi molti editori stanno aderendo a un tipo di mentalità diversa, che prevede la creazione di grandi aeree di specializzazione (come possono essere la moda, il beauty, l’oroscopo, i viaggi) e di persone che in quelle aeree ci lavorano, spalmandosi però su più testate. Questo significa, ad esempio, che chi si occupa di moda su Vogue, potrà anche farlo “at large” anche su Glamour e Teen Vogue, giusto per citare brand di casa Condé Nast, mentre a ogni magazine rimarrà la possibilità di costruire la propria identità attraverso un linguaggio estetico consono al proprio background e l’individuazione di tematiche che possano caratterizzarli nell’oggi.

Anche la tradizionale figura del riverito direttore del giornale moda è in fase di ripensamento: da più parti si sta sperimentando infatti la direzione in co-leadership, come nel fortunato caso di Teen Vogue, in modo da assicurare una visione intellettuale più fresca e sfaccettata. La carta, perciò, sarà sempre più un prodotto “di lusso”: le pubblicazioni patinate usciranno meno spesso con una foliazione maggiore, saranno prodotte e scritte sempre meglio, in modo da giustificare l’aumento del costo delle pagine pubblicitarie, con il quale si cerca in parte di arginare la diminuzione degli investimenti. In questa direzione si sono già orientati GQ, GQ Style e, seppur mantenendo per adesso le sue dodici mensilità, anche Vogue America. Dazed & Confused e AnOther lo avevano fatto già nel 2013, puntando tutto sui siti. E proprio il digitale sarà l’altra faccia della medaglia: se da una parte è ormai piuttosto risaputo che gli investimenti sulle testate online non potranno mai compensare del tutto le perdite delle rispettive controparti cartacee, i giornali che si occupano di moda punteranno tutto sulla produzione video, in particolare tutorial beauty, recensioni di prodotti e consigli, e sullo sviluppo dell’audience delle proprie piattaforme social, soprattutto Facebook Live, Instagram Stories e i canali tematici di Snapchat. A fare la differenza, però, sarà la capacità di ogni giornale di crearsi la propria nicchia di influenza nell’era del personal branding e delle digital influencer: in un panorama generale di effettivo ridimensionamento, la vera sfida per essere rilevanti rimane, fortunatamente, sul contenuto. Qualche segnale già c’è: basti pensare a quanto sia incrementata la diversità etnica sulle copertine dei femminili americani, come riporta un’indagine di Fashionista. Un piccolo segno di quanto ancora abbiamo da fare.