Attualità
Cosa sta succedendo a Vogue America
All’indomani del Met Gala, uno sguardo alle strategie di riposizionamento del “mega-brand” di Condé Nast, tra digitale e carta.
Quando Grace Coddington ha annunciato le sue dimissioni da direttore creativo di Vogue, ruolo che ha mantenuto per quasi trent’anni, era chiaro che nell’aria ci fossero grandi cambiamenti. Magari non strettamente legati alla dipartita della celebre stylist – che a 75 anni suonati non ci pensa neanche alla pensione ed è stata appena nominata direttore artistico di Tiffany – quanto piuttosto a un vero e proprio riassestamento del Vogue di Condé Nast, nella sua accezione più popolare e gigantesca di tutte, quella americana. A capo del restyling c’è ovviamente Anna Wintour, i cui titoli nella publishing house di casa presso il One World Trade Center di New York sono tanti quanti quelli della Daenerys Targaryen di Game of Thrones: è infatti direttore di Vogue dal 1988, direttore artistico di Condé Nast dal 2013 e, nel 2015, è entrata a far parte della board di Condé Nast International, cui fa capo fra le altre cose il rilancio di Style.com. Già membro del consiglio di amministrazione del Metropolitan Museum of Art, nel 2011 Wintour è stata promossa «elective trustee» in virtù del suo impegno nel raccogliere fondi per il museo, grazie soprattutto all’annuale Gala che organizza dal 1995, il Met Gala appunto.
Negli ultimi anni il red carpet che accompagna l’inaugurazione della mostra ha finito per rivaleggiare con quello degli Oscar per quantità di celebrity, copertura mediatica e look improbabili. Per il 2016, il tema della retrospettiva (che, almeno in linea teorica, dovrebbe ispirare la scelta degli abiti degli ospiti/donatori) era Manus x Machina: Fashion in the Age of Technology. L’accoppiata moda-tecnologia immaginata dal curatore Andrew Bolton ha visto quest’anno una massiccia sponsorizzazione di Apple, partner dell’evento. In un articolo su Racked, Nicola Fumo e Kwame Opam notano come entrambi i mega brand tentino con questo tandem di superare alcuni loro limiti emersi negli ultimi tempi. Nonostante gli iPhone non vendano più come una volta e Vogue.com sia arrivato per ultimo nella gara sul digitale, infatti, «questi due colossi hanno ancora un sacco di soldi a disposizione, e sembrano aver pensato che unendosi possano risplendere uno della luce dell’altro. Per esempio quando Apple ha cercato di posizionare il suo iWatch (il primo nuovo prodotto lanciato dai tempi dell’iPad nel 2010) non solo come un gioiello di tecnologia, ma come un vero e proprio accessorio fashion, si è rivolto proprio a Vogue. Manus x Machina è un’estensione di quel rapporto: un evento culturale sensazionalistico che cerca di mantenere l’immagine di Apple come marchio di prodotti di lusso e sexy, e di far sembrare Vogue connesso e “in touch”».
D’altronde Vogue è ripartito proprio dalla consapevolezza di cosa rappresenta, come ha spiegato la publisher Susan Plagemann in un’intervista a Business of Fashion: «Non facciamo una versione di Vogue diluita. Abbiamo un unico brand, un unico Dna, e non ci allontaniamo da quello. Come le editor traducono quel Dna in un post di Instagram o in un articolo sul giornale sta alla loro creatività. Ma è sempre Vogue». Come accennato, Vogue.com è una creatura abbastanza recente, avendo visto la luce nella sua versione integrale solo nel 2010, e secondo i dati di ComScore – società di ricerca via Internet che fornisce servizi e dati per il marketing in diversi settori commerciali – nel febbraio 2016 ha totalizzato 5,3 milioni utenti unici in America, contro i 7,4 milioni di Elle.com e i 6,3 milioni di Harpersbazaar.com. I dati cambiano, però, se si guarda al seguito social ed è qui che il brand e quello che significa nell’immaginario comune mostra tutto il suo peso: su Instagram, Vogue colleziona ben 10,2 milioni di followers, mentre Elle si ferma a 1,6 milioni e Harper’s Bazaar a 2 milioni. A conferma dello sforzo di Condé Nast per recuperare il tempo perduto, oggi lo staff di Vogue.com conta più di 50 persone, che si dividono tra tutte le piattaforme social e contribuiscono ad alimentare un sito che offre una copertura giornalistica completa e variegata, come dimostrano le tante storie che hanno raccontato l’uscita di scena di Hedi Slimane da Saint Laurent o le settimane della moda, dove agli immancabili street-style e front-row di celebrity si accostano sempre le recensioni puntuali (e veloci) del team guidato da Sarah Mower e moltissimi articoli che indagano le tendenze delle passerelle, anche dal punto di vista storico. Sì, Vogue.com è quel sito dove troverete sempre qualcosa di Kendall Jenner e Taylor Swift o dove Kim Kardashian e Kanye West sono la coppia meglio vestita del Met Gala, ma a guardare bene ci sono anche storie come quella del libro che racconta la vita di Audrey Munson o di come è cambiata la silhouette femminile nel Novecento, oltre che una ricerca instancabile di nuovi marchi.
A corollario dell’offerta digitale, è stata lanciata proprio in occasione del grande evento del Metropolitan la nuova app del giornale, che offrirà ai suoi lettori otto storie al giorno, con l’inserimento di contenuti sponsorizzati ogni quattro video e la promessa fatta agli investitori di non mettere mai più di un marchio nella stessa pagina di Vogue.com. Anche l’edizione cartacea, com’era naturale, è arrivata nelle edicole con alcune novità: una quasi irriconoscibile Taylor Swift in copertina, intanto, madrina dell’evento insieme all’impeccabile Idris Elba, e un nuovo formato, più grande del solito, che giustifica l’aumento del prezzo di un dollaro (da 5,99 a 6,99) e si ripresenterà nell’altro numero più importante dell’anno, quello di settembre. La carta dunque non va a restringersi: l’idea è quella di offrire un prodotto sempre più ampio e ricercato, che non ha paura della foliazione. In linea con quei cambiamenti che stanno attraversando l’editoria del settore e di quella sempre più sottile linea di demarcazione che divide il contenuto sponsorizzato da quello editoriale, gli abbonati di New York e Los Angeles riceveranno un supplemento di 52 pagine interamente dedicato a Kendall Jenner (sì, sempre lei), sponsored by Estée Lauder, di cui Jenner è testimonial. Se il dubbio che tali supplementi siano o meno necessari dal punto di vista editoriale rimane, di sicuro è difficile ignorare il ritorno pubblicitario che garantiscono. D’altronde, dalle parti di Vogue le cose si fanno solo una volta prese tutte le dovute precauzioni, come dimostra il lancio della app – un po’ in ritardo sul mercato, in effetti, notano da Digiday – e il tempo di incubazione che da Condé Nast stanno riservando al rilancio del defunto Style.com, sul cui progetto di e-commerce le notizie sono poche e vaghe.
Il modello Met Gala, però, rimane interessante, perché mette l’intero settore moda al centro dell’attenzione delle istituzioni e dimostra come esso sia un potentissimo motore economico, culturale e di spettacolo. Così interessante che il British Fashion Council ha annunciato per il prossimo 5 dicembre i Global Fashion Awards, che si terranno presso la Royal Albert Hall di Londra e raccoglieranno fondi per la Education Foundation dello stesso BFC. Il presidente Natalie Massenet – per la quale dopo l’addio a Net-a-porter.com si era vociferato di un probabile ruolo proprio a Vogue US – ha descritto l’evento come un mix fra gli Oscar e lo stesso Met Gala, promettendo un red carpet sfavillante. E l’Italia? Nel dicembre del 2013, Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi hanno dimostrato con Bellissima. L’Italia dell’alta moda al Maxxi di Roma che da noi operazioni di questo genere avrebbero anche più senso, considerato il nostro bagaglio storico e culturale, ma per ora la risposta delle istituzioni (dalla Camera della Moda al Ministero dell’Istruzione) non si è fatta sentire.