Attualità

Un insulso pittore di sacchi al Guggenheim

Come una carriera artistica costellata di stroncature ci fa capire il modo in cui funziona l'arte.

di Francesco Angelucci

Nessuno, oggi, sognerebbe mai di mettere in dubbio l’arte di Alberto Burri e il fatto che il mondo intero festeggi i cento anni dalla sua nascita sta qui a dimostrarlo. Il Gugghenheim di New York il 9 ottobre ha previsto una retrospettiva dedicata all’artista, il centro dei congressi europeo gli dedica una serie di tributi, un comitato nazionale è stato istituito per «promuovere e diffondere, attraverso un adeguato programma di celebrazioni, di attività formative, editoriali, espositive e di manifestazioni artistiche, culturali e scientifiche, in Italia e all’estero la figura e l’arte, l’opera e l’attualità di Burri». In concomitanza con l’Expo si è ricostruito, non senza polemiche, il suo Teatro continuo nel Parco Sempione, mentre si cercano fondi per i restauri del grande cretto a Ghibellina. Manifestazioni e omaggi degni, insomma, di una delle più alte figure della storia dell’arte. Giudicato ora un maestro, Burri non ha ricevuto la stessa considerazione agli inizi della sua carriera, segnata da offese e insulti. Ostacoli al successo che non fanno di lui un eroe, ma che aiutano a capire come funzionava e come ancora funziona il mondo della critica d’arte.

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Sono passati più di sessant’anni da quando la stella Burri ha cominciato a brillare nei cieli dell’arte contemporanea, anche se non tutti, o meglio veramente pochi, all’epoca erano d’accordo. È il secondo dopoguerra, quando escono fuori i primi lavori di un medico chirurgo che  vuole essere artista. Fra i tagli di Fontana e la merda d’artista di Manzoni, i sacchi di Burri vengono accolti come l’ennesima provocazione di un’arte arrivata alla frutta. Troppo facile e per niente utile bollare queste posizioni come espressione di un pubblico non ancora pronto per l’Arte con la a maiuscola, meno facile e più utile capire perché in quest’arte nemmeno i critici avevano visto la maiuscola, e alcuni neanche la minuscola.

Lo storico dell’arte Maurizio Calvesi scrive perché Burri debba essere considerato un maestro, pensieri e parole del 1971 ma che rispecchiano la considerazione attuale dell’artista: «Burri è riuscito, forse per l’ultima volta, a portare la vita nell’arte». Pittore? Perché questa è una delle prime domande all’apparire di Burri sulle scene. Sono pitture quelle? Dopo un breve inizio dove effettivamente colorava tele, l’artista comincia a incorniciare sacchi di juta che cuciti o meno fra loro, più o meno dipinti, trovano il loro posto sulla tela di prima. Solo perché della juta invece che stare per terra era stata messa dentro un riquadro poteva chiamarsi pittura? La domanda è particolarmente sentita, tanto che non solo gli oppositori di Burri ma anche gli stessi sostenitori palesano qualche incertezza. Il poeta e critico militante Emilio Villa, estimatore della prima ora dell’artista, scrive infatti in tempi non sospetti, siamo nel 1951: «Diciamo pure: pitture, ma esse sono nutrite di un materiale che della pittura conserva soltanto la sua tragica reminiscenza, quasi come asfittica, un materiale devitalizzato depauperato imputridito consunto e già coartato dal deperimento».

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I più attenti non si spaventano di fronte a della juta incorniciata, ma se ne domandano il senso in quanto Burri, nei suoi lavori, è stato preceduto da nomi illustri (Kurt Schwitters, Enrico Prampolini) che come e prima di lui componevano con materiali non convenzionali, dal legno alle ruote di ferro. Così, oltre a non essere il primo a non fare pittura, il medico non è neanche il primo a incollare cose su una tela. Comprensibile il perché di quanti vedevano nei sacchi una reiterazione di modelli passati. Elegante e censorio scrive il critico d’arte e direttore dell’Iccrom Giovanni Urbani: «La cosa più sorprendente, e che fino ad ora non è stata posta nella giusta luce, è che a Burri riusciva a tanto compendio un lunghissimo passo all’indietro. Se l’evoluzione della storia seguisse un filo logico possiamo essere certi allora che il pensiero espresso da Burri varrebbe appena da introduzione a quello di Duchamp, non da infruttuoso e incoerente epilogo quale è in sostanza e nella cronologia».

E dobbiamo immaginarlo, Urbani, seduto a gambe incrociate, protetto da un doppio petto sartoriale, avvolto da un collo di camicia bianca, non troppo stretto né troppo largo che accoglie un nodo di cravatta perfetto, mentre, sicuro della sua pettinatura, scrive con una Montblanc sullo spesso cuoio del suo scrittoio «Burri non è nuovo ma semplicemente involuto». Da argomento per cene più o meno eleganti in salotti più o meno borghesi, l’artista passa improvvisamente alle colonne dei giornali nazionali. Succede quando Palma Bucarelli, allora direttrice della Galleria Nazionale d’arte moderna di Roma, decide di farvi entrare il Grande sacco dell’artista. Siamo nel 1959. Per descrivere il clima basterà ricordare come Giorgio De Chirico, decisamente avverso alle avanguardie, usava abitualmente appellarsi alla direttrice del museo: amazzone delle croste.

«Al bando gli artisti veri per far posto agli sgorbi, alle tele di sacco, ai buchi incorniciati e alle ferraglie», scrive nel 1959 l’ex ministro della Finanze Luigi Preti sulla Giustizia. Umberto Terracini, dirigente del Pci, chiese al governo quale cifra fosse stata pagata dal museo per la «vecchia e sdrucita tela da imballaggio che, sotto il titolo di Grande sacco, è stata messa in cornice da tal Alberto Burri» e la Bucarelli viene convocata per un’interrogazione parlamentare. «Quella suggestiva bellezza che possiamo ammirare in una bottega che vende patate», scrive il critico d’arte Marziano Bernardi sulla Stampa. «I pezzi di tela di sacco bucati, non entreranno nell’arte neppure tra mille anni, poiché sono solo buffonate», scrive ancora Preti impegnato in quel periodo in una lotta contro l’arte astratta italiana. Una signora chiede di disinfettare la sala del museo con il Ddt, mentre era ormai comune definire la Bucarelli «signora degli stracci» e Burri un «pittore di sacchi».

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Un anno dopo, nel 1960, l’artista viene chiamato per esporre in una personale alla Biennale di Venezia con un catalogo firmato da Argan e vince il premio Aica, Associazione internazionale critici d’arte. Il resto è storia, e inutile sarebbe ricordarne i successi economici e artistici. A fronte del facile populismo dei giornali, la fama di Burri si costruisce anche sopra le critiche di nomi importanti nella storia dell’arte (l’artista, per dire, non è nemmeno considerato nella capitale Story of art di Gombrich, il più famoso manuale di storia dell’arte del mondo, dove trovano posto comunque suoi contemporanei come Morandi, Martini, Kline e Pollock) che sollevano problemi ancora insoluti nella poetica dell’artista, ai quali lo stesso Burri rispondeva con il silenzio. Mai una parola ha pronunciato sulla sua arte, mai uno scritto o un’intervista dove definiva la sua posizione, nell’idea romantica, o forse studiata, che più delle parole parlassero le opere. Strutture teoriche fondate sulla sola osservazione di sacchi attaccati a una tela hanno permesso a Burri di conquistare la sua attuale posizione nella storia dell’arte. Teorie che mai sapremo se rispecchiavano il pensiero dall’autore e che, se vogliamo credere a quanto scritto dall’amico Stefano Zorzi nell’unica intervista fatta all’artista che ripercorre tutta la sua carriera, ma pubblicata postuma  nel libro Parola di Burri, l’artista non condivideva affatto.

Come è possibile con queste premesse che l’artista sia arrivato a conquistare un posto di tutto rispetto nella storia dell’arte? Risponde di nuovo Urbani, sempre elegante: «È Burri a essere cresciuto a dismisura, fino a impegnare l’intero orizzonte ideologico della critica attuale; o è questo orizzonte a essersi improvvisamente ristretto, entro termini che or non è molto la critica considerava con degnazione? Immagino che del sesso degli angeli si venisse a parlare quando di problemi di maggior momento s’era discusso abbastanza».

Le critiche mosse a Burri hanno permesso nel bene e nel male di parlarne, contribuendo anche alla definizione della sua figura di artista romantico. Opinioni contro che hanno avuto il merito di allargare il dibattito anche ai non addetti ai lavori, per esempio attraverso scritti comparsi per lungo tempo sulle colonne dei più svariati quotidiani. Un’attenzione critica che è decisamente scemata perdendo l’attenzione della società e la gloria dell’artista incompreso, ora, (quasi) sempre già integrato nel grande sistema dell’arte contemporanea.