Attualità

Piccolo manuale per stare all’opposizione

Perché mai il Pd non dovrebbe andarci? Vademecum in tre punti per ricordarsi come si fa.

di Francesco Cundari

Maurizio Martina, Agriculture Policies Minister and member of the Democratic Party (PD), leaves after a press conference following the first exit polls of the general elections, at the PD headquarters in Rome early on March 5, 2018. An exit poll by private channel La7 put Lega Nord's coalition at between 32 and 37.6 percent and the Five Star Movement between 28.8 and 30.8 percent. The ruling centre-left Democratic Party was trailing in third place, according to the exit polls. / AFP PHOTO / Tiziana FABI (Photo credit should read TIZIANA FABI/AFP/Getty Images)

È un periodo difficile per gli elettori della sinistra, e specialmente per quelli che, come me, hanno cominciato a interessarsi di politica all’inizio degli anni Novanta. C’è poco da fare: avere avuto quindici anni allora, in un partito che era stato per quarant’anni all’opposizione e solo in quel momento cominciava a intravedere una via d’uscita, comporta un imprinting.

Significa avere ascoltato e ripetuto fino allo sfinimento, sin dal primo giorno della propria militanza, un lungo catechismo che cominciava sempre con l’imperativo di non chiudersi in una ridotta minoritaria, proseguiva con l’ammonimento a non cedere a un infantilismo estremista (una delle poche citazioni di Lenin che avrebbero avuto ancora corso per qualche tempo) e si concludeva invariabilmente con la necessità di assumersi le proprie responsabilità per misurarsi con la sfida del governo (o anche di assumere la responsabilità del governo per misurarsi con le sfide del proprio tempo, secondo i gusti).

Il punto di partenza – e spesso anche di arrivo – di ogni discorso sul futuro era sempre quello: dimostrare che erano finiti i tempi di una vecchia sinistra arroccata all’opposizione, che era venuto il momento di una sinistra moderna, una sinistra che aveva «cultura di governo». E qui, se qualcuno si fosse domandato da dove la sinistra avesse mai potuto trarla, quella cultura, non avendo più messo piede in un esecutivo dai tempi della svolta di Salerno, rispondeva prontamente l’interminabile elenco dei molti e luminosi esempi di buon governo offerti dalle regioni rosse, dove la saggezza, il senso pratico e l’affidabilità degli amministratori di sinistra garantivano da decenni insuperati standard di benessere e qualità della vita a tutti i cittadini.

Da allora a oggi, molte e dure prove di responsabilità sono state date. Lunghissimo è l’elenco dei governi tecnici e istituzionali o di larghe intese cui la sinistra ha dato il suo appoggio, prima, durante e dopo il lungo ventennio berlusconiano. Un ventennio in cui la sinistra si è trovata spesso in una posizione inedita: all’opposizione, ma al tempo stesso sotto accusa per le scelte di governo precedenti, o per un’opposizione giudicata troppo poco radicale.

E così, dopo avere passato quarant’anni a cercare di dimostrare la propria cultura di governo anche dall’opposizione, una parte della sinistra ha passato i successivi venti a cercare di dimostrare di essere all’opposizione anche quando era al governo. Una sindrome culminata nel caso indimenticabile, e probabilmente unico nell’occidente avanzato, rappresentato dai ministri della sinistra radicale che nel pomeriggio manifestavano contro i provvedimenti varati al mattino dall’esecutivo di cui facevano parte (ai tempi del centrosinistra unito e del maggioritario, che molti rimpiangono e pochi ricordano).

Ma tutto questo, lo sappiamo, è finito nel 2011, con la caduta di Berlusconi e la formazione del governo Monti. Da quel momento in poi, la strategia del Pd è stata incentrata su una serie ininterrotta di governi di responsabilità nazionale. È dunque più che comprensibile che l’idea di tornare improvvisamente all’opposizione susciti in dirigenti e parlamentari di quel partito, sulle prime, qualche difficoltà di adattamento, se non un vero e proprio senso di smarrimento. E solo così mi spiego tutto il surreale dibattito sull’opportunità di sostenere il governo di un partito avversario senza che questo debba neanche abbassarsi a chiedertelo, o sull’impellente necessità di dichiarare la propria disponibilità a un «governo di scopo» prima ancora di sapere, eventualmente, quale sarebbe lo scopo.

A questo fine potrebbe forse tornare utile un agile vademecum per parlamentari e dirigenti disabituati al ruolo dell’opposizione, sulla scorta dell’immortale campionario di frasi fatte raccolto da Luciano Bianciardi negli anni Xinquanta, che per l’occasione condenserei in tre semplici punti.

Punto primo. Nella nuova fase, che si annuncia assai più aspra e conflittuale del passato, sarà bene prendersi una pausa da una certa retorica ottimistico-motivazionale invalsa negli anni di governo – le sfide entusiasmanti, i risultati emozionanti, gli emendamenti commoventi – senza scadere però nella retorica pessimistico-piagnona di una sinistra che troppo a lungo ha pensato di poter fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno (un certo tasso di ottimismo, fiducia nell’uomo e nel progresso è essenziale per qualsiasi idea di emancipazione si voglia coltivare). Non sarebbe male se per l’occassione si riscoprisse anche il gusto della battaglia. Forse sarebbe un po’ eccessivo tornare a parlare di lotte con l’enfasi dei tempi di Bianciardi, lotte per le quali non si mancava mai di mobilitare tutte le forze, toccare larghi strati e porsi alla testa delle masse – e alcune formulazioni andranno senz’altro riviste – ma sarà anche bene trarre dal passato quel tanto di insegnamento che ancora può dare, prima di accorgersi che il massimo di mobilitazione di cui si è capaci è una diretta Facebook.

Punto secondo. Quando capiterà di dover contrastare provvedimenti del governo in verità non particolarmente dannosi, non ci sarà bisogno di gridare oscenità e lanciare accuse a casaccio. Basterà dire, come si usava un tempo, che occorrerebbe ben altro. E se qualcuno farà osservare che per fare ben altro servirebbero soldi, tempi, condizioni che non ci sono, si replicherà senza fare una piega che non è questione di soldi, o di tempi, o di nient’altro, perché quello che manca è la volontà politica.

Punto terzo. Per quanto riguarda il dibattito nel partito, ricordare sempre che gli avversari interni non vanno asfaltati, bensì ascoltati, ovviamente sempre allo scopo di fare sintesi. E che ogni critica è ben accetta, sapendo però, e non mancando mai di rammentare all’interlocutore, che la situazione è più complessa. Sempre.

Ecco tutto. Con queste semplici indicazioni spero di aver dato anch’io il mio utile contributo al dibattito, che dovrà essere naturalmente approfondito, nella speranza che il Partito democratico riesca a superare le pur comprensibili resistenze alla scelta di collocarsi all’opposizione, non foss’altro che per una banale ragione di autoconservazione. Voglio dire: se passa l’idea che alla fine della fiera, quale che sia l’esito delle elezioni, il Pd al governo ci va comunque, perché mai qualcuno dovrebbe ancora prendersi il disturbo di votarlo?

 

Foto: TIZIANA FABI/AFP/Getty Images