Attualità

Avremo sempre il Marais

Siamo andati a capire cosa racconta della Francia ai tempi della crisi del multiculturalismo un ghetto aperto, gay ed ebraico, poi diventato simbolo di gentrificazione.

di Anna Momigliano

Al numero 33 di rue Vieille du Temple, all’angolo con Sainte Croix de la Bretonnerie, oggi c’è una gioielleria che fa capo a una grande catena. In un tempo non lontano l’edificio ospitava Le Central, il bar che tra il 1980 e il 2010 è stato il cuore della vita gay del Marais. Tra le leggende che circondano il locale, ce n’è una che racconta molto di ciò che è, o vorrebbe essere, questo quartiere parigino, antico ghetto ebraico diventato epicentro della cultura omosessuale. Si narra che nei primi anni Ottanta alcuni ragazzi del Betar, un gruppo della destra sionista, avessero organizzato una spedizione punitiva: a quei tempi in alcuni ambienti Lgbt andava di moda portare la testa rasata, così avevano scambiato i clienti del Central per neonazisti e deciso di fare irruzione. Pare che non appena accortisi del malentendu si siano ritirati profondendosi in scuse: le due comunità hanno ripreso la loro convivenza serafica che ancora oggi incuriosisce i visitatori.

Per chi segue le vicende francesi c’è qualcosa di confortante nel Marais: due minoranze, assai visibili e fiere della loro diversità, prosperano nel cuore di una nazione che con le identità forti sembra avere qualche problema, proprio mentre il Paese è messo a dura prova da un’ondata di terrorismo islamico che ha fatto di omosessuali ed ebrei due dei suoi bersagli principali. Un tempo porto franco per i reietti, oggi è uno dei quartieri più cari, turistici e mainstream della città: una transizione iniziata più di vent’anni fa e che, secondo alcuni, lo sta snaturando. A prima vista è un copione trito: una zona povera ma “con personalità” s’arricchisce, e qualcuno si lamenta che non è più quella di una volta. Eppure il dibattito sulla gentrificazione del Marais, con tutta l’ossessione per l’autenticità che esso rivela, tocca anche corde più profonde, a cominciare dalla nostra idea di identità e quanto siamo disposti a edulcorarla per andare d’accordo con gli altri.

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Quando si parla del “gaytto”, cioè il Marais ebraico e omosessuale, in realtà s’intende una piccola area nel sud del quartiere, cinque vie dove i ristoranti kasher si alternano ai locali in drag, le sinagoghe alle librerie Lgbt. I gay vanno a mangiare falafel; i rabbini forse non approvano il loro stile di vita ma non lo danno a vedere; gli ebrei omosessuali tengono molto a farti sapere di «sentirsi a casa»; i turisti e i parigini borghesi, inclusa qualche ragazza col velo, curiosano, mangiano, comprano. Tutt’intorno gallerie d’arte, vintage shop e negozi di design arrivati a partire dagli anni Novanta. Poi, i grandi marchi del fast fashion, un’aggiunta assai più recente. Rue des Archives e Sainte Croix de la Bretonnerie sono territorio prevalentemente Lgbt; rue Pavée e rue des Rosiers formano il Pltetzl, la “piazzetta” in yiddish; rue des Ecouffes è amichevolmente condivisa. «Tutta questa coesistenza mi rende euforico, è una specie di microcosmo utopico, dove la pâtisserie è meglio che a Tel Aviv», fa notare Tal Spiegel, chef israeliano spumeggiantemente gay, che passa il tempo a postare su Instagram foto di éclair e scarpe nuove (calzature e dolci spesso sono abbinati).

«Ma è tutto finto, la Francia è un’altra cosa!», m’ha avvertito un amico, un avvocato italiano che lavora da anni per un ente parigino, quando gli ho raccontato che volevo scrivere un reportage sul quartiere. Quello che intendeva dire è che il Marais oramai è un parco divertimenti dove di autentico è rimasto poco: con prezzi al metro quadro che rivaleggiano con quelli di Saint-Germain-des-Prés, ci abitano molti expat suoi colleghi, di giorno è invaso dai turisti americani, di sera da trentenni fighetti del settimo arrondissement, nei fine settimana da famiglie e adolescenti che vanno a fare shopping nelle grandi catene (c’è di tutto, da American Apparel a Nara Camicie). Lo snaturamento, o presunto tale, del quartiere è un tema sentito anche nella comunità ebraica e in quella omosessuale.

Lo scorso anno l’autore e attivista Lgbt Frédéric Martel ha lanciato una campagna «contro la gentrificazione», invitando la gente a boicottare i grandi magazzini Bhv; lo Slate francese lamentava la «fossilizzazione» della zona. Parlando con Studio, la direttrice del Musée d’Art et d’histoire du Judaïsme Laurence Sigal ha liquidato la recente fioritura di locali ebraici come «un buzz superficiale» che implica «una perdita del senso della storia». Sua figlia Faustine, che ha 23 anni e insegna in una scuola religiosa, è un po’ meno dura e accetta di farmi da guida, ma poi aggiunge: «Se vuoi avere un’idea di che cosa sia la vita ebraica a Parigi, fatti un giro a Sarcelles». Il riferimento è alla banlieue dove vivono molti ebrei magrebini e gli scontri con i musulmani non sono infrequenti. Miznon è un piccolo ristorante in rue des Ecouffes di cui i foodblogger dicono un gran bene, specializzato in hummus, kebab, falafel e fritture vegane: succursale di un locale in voga a Tel Aviv, offre street food mediorientale ripulito e ammodernato a uso e consumo della classe creativa. Ci porto il mio amico, l’avvocato convinto che il Marais «è diventato un luna park»; nel tavolo vicino al nostro c’è un gruppetto ciarliero, due ragazzi sulla trentina, due ragazze di poco più giovani, tutti vestiti in modo molto contemporaneo, tutti dall’aria benestante, parlano in francese. Uno dei ragazzi, che sembra uscito da un look book di Asos, è di colore; una delle ragazze è ebrea, ma lo intuisco soltanto orecchiando la conversazione, perché cerca di tirarsela spiegando che «quello non è un kebab, è uno shawarma, perché il kebab israeliano è uno spiedino». Con mio stupore, gli altri sembrano interessati al distinguo, così attacco bottone: lei è nata a Ramat Gan ma è cresciuta a Parigi, gli altri sono di qui, tutti foodies, conversiamo di zatar, la spezia, e di shakshuka. Questo posto ha successo, dice Faustine, perché «offre esattamente quello di cui i trentenni parigini degli arrondissement “bene” sono affamati: un esotismo dietro l’angolo, una forma di ebraismo digeribile che sta diventando cool».

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Mi chiedo se non ci sia un rovescio della medaglia. Per alcuni, forse, un posto come Miznon è anche un’occasione per affermare la loro identità senza essere veramente diversi dagli altri. È di questi giorni la notizia che, per la prima volta nella storia della République, la maggior parte degli studenti ebrei non frequenta la scuola pubblica, in parte una reazione all’antisemitismo in aumento nel Paese, in parte una scelta obbligata dettata dalle politiche di laïcité, che mettono al bando i simboli religiosi, kippà inclusa, dagli istituti statali. Questo clima sta portando la comunità ebraica francese a una scissione dolorosa: da un lato chi si chiude nella sua identità, anche a costo di essere un po’ meno francese, dall’altro chi si assimila al punto da diventare soltanto francese. Così trascorrere qualche serata al Marais, in un locale etnico ma non troppo e che piace alla gente che piace, è un modo per mantenere il legame con le proprie origini sentendosi parte della Parigi cosmopolita.

A rue Sainte Croix de la Bretonnerie c’è una hamburgheria chiamata “Tata Burger” in onore di Mrs. Doubtfire, il film con Robin Williams in gonnella. Come il nome lascia intendere, i camerieri sono in drag e il posto non è un granché. Il personale però è molto affabile, tra i clienti ci sono un padre con un bambino, qualche coppia gay e una butch che chiacchiera in arabo con un amico. Uno dei camerieri gli chiede da dove vengono (Tunisia) e sfoggia qualche parola nella lingua locale, loro provano a spiegargli l’utilizzo corretto dell’esclamazione “alhamdulillah”, sia lode ad Allah. Un tizio con un abitino verde distribuisce ai tavoli flyer per un suo spettacolo: si chiama Mehdi, è un francese musulmano. In un contesto del genere, una discussione tra drag queen su come lodare Allah è meno incoerente di quanto si tenderebbe a pensare; e non solo perché, a conti fatti, si tratta di un’espressione di giubilo come un’altra: mentre una buona fetta del mondo islamico fatica ancora a trovare una quadra con l’omosessualità, c’è chi è sufficientemente a suo agio nei propri panni da non avvertire contraddizioni.

Gli ebrei sono arrivati al Marais nella notte dei tempi oppure alla fine dell’Ottocento, o sessant’anni fa, a seconda della visione del mondo di chi racconta la storia; i gay alla fine degli anni Settanta. Nei secoli bui ha vissuto qui una piccola comunità israelita, scacciata da Filippo il Bello. Intorno al 1870 sono arrivati migliaia di ebrei russi in fuga dai pogrom, insieme a qualche alsaziano, ma di questa comunità resta poco perché è stata decimata dai rastrellamenti nazisti. Gli ebrei che abitano il Pletzl oggi sono giunti dal Maghreb dopo la decolonizzazione, come la maggior parte degli immigrati arabi: hanno scelto la zona perché costava poco. Nel 1979 ha aperto i battenti il Village, il primo locale gay, e molti altri seguirono a ruota: anche gli omosessuali erano attratti dai prezzi bassi, senza contare che la borghesia perbenista s’avventurava di rado da quelle parti. Fino al 1985, racconta Frédéric Martel, «il Marais è rimasto un posto indesiderabile». Col tempo però, com’è avvenuto con l’East Village di New York o con Castro a San Francisco, la presenza di una comunità Lgbt vivace e creativa ha galvanizzato il quartiere, attirando moda, arte e design: «In un certo senso, la gentrificazione del Marais è stata una gaytrificazione», spiega Martel. Com’era naturale che accadesse, la nuova coolness ha attirato i bobò, poi gli americani di stanza a Parigi e i turisti. Con altrettanta prevedibilità, il flusso di denaro ha portato le grandi catene. Il distretto yiddish ha fatto sua la nuova estetica, dato una ripulita ai vecchi negozi e importato i deli da New York e lo street food stiloso da Tel Aviv.

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Sophie Bramly, nata in Tunisia, è cresciuta nel Pletzl scalcinato degli anni Sessanta. Poco più che ventenne s’è trasferita a New York, dove s’è fatta un nome come fotografa nella scena hip hop, poi è andata a Londra dove ha contribuito a fondare Mtv Europe. È rientrata nel Marais diciotto anni fa, proprio mentre altri creativi simili a lei cominciavano a colonizzarlo. Ha appena girato un documentario sul quartiere: l’ha intitolato Ta’am, “gusto” in ebraico, in onore dei sapori della sua infanzia. Nel gennaio del 2015 sua cugina, la psicanalista Elsa Cayat, è stata uccisa insieme ad altre undici persone da due jihadisti che hanno preso d’assalto la redazione di Charlie Hebdo: Elsa era l’unica donna tra le vittime, pare che uno dei terroristi avesse urlato «non spariamo alle femmine», e Sophie non riesce a togliersi dalla testa che sia stata uccisa perché era ebrea, com’è accaduto qualche giorno dopo ai clienti del supermercato HyperCacher: «Dopo tutti i Je Suis Charlie, ho visto pochi Je Suis Juif», commenta. Sophie è parte di un crescente gruppo di artisti francesi che stanno facendo dell’identità ebraica, un tempo tenuta in privato, un elemento centrale del loro lavoro (l’esempio più ovvio è Charlotte Gainsbourg, che con il marito Yvan Attal ha realizzato una commedia sull’antisemitismo, Ils sont partout) ed è difficile pensare che non sia una reazione all’aria che tira. Quando l’ho incontrata, m’ha dato l’impressione di appartenere, come altri frequentatori del Marais, a una categoria ben precisa di persone di mondo: gente che è così cosmopolita, e cioè così uguale, da potere andare fiera della propria diversità.

Qualcuno dice che la Francia, grande malato d’Europa, è incapace di accettare le differenze. Tra messe al bando dei burkini nelle spiagge, dei simboli religiosi a scuola, e presidenti che dichiarano che i valori della République sono i seni scoperti della Marianna, e non le donne velate, le identità forti non hanno un loro spazio nel Paese, e il risultato è talvolta un identitarismo esasperato fatto di ghetti chiusi, di comunità che non si sentono parte della nazione. Il Marais invece è un ghetto aperto, dove essere ebreo, o gay, o appartenere a una qualsiasi minoranza, è un argomento di conversazione, un pizzico di sale che rende una pietanza più interessante senza cambiarne radicalmente il sapore. È una forma evoluta di folklore tra persone che, sotto sotto, condividono gli stessi valori. Il prezzo da pagare, fanno notare i critici, è trasformarsi in una versione edulcorata di se stessi. È indossare una sottile maschera che si chiama modernità: c’est pas grave, il Talmud insegna che la verità è un dono assai prezioso, da usare con parsimonia, e se un giorno la Francia dovesse collassare sotto il peso delle sue contraddizioni, avremo sempre il Marais.

Dal numero 28 di Studio, in edicola
Fotografie di Cosimo Piccardi