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Tornare indietro, ma indietro dove?

Dal premio Strega alle diete, libri e cibo sono diventati i luoghi di rifugio dalla modernità, ma è difficile definire uno stato "naturale" originario.

di Francesco Longo

Il romanzo che ha vinto l’ultimo premio Strega, Le otto montagne di Paolo Cognetti (Einaudi), registra un umore diffuso nella società: il desiderio di tornare alla natura. In un’intervista, il giorno dopo la vittoria, l’autore ha motivato così il rametto di abete che spuntava dal suo taschino: «Il verde del rametto di abete che ieri avevo nel taschino della giacca e il nero della cravatta sono richiami ai colori dell’anarchismo ecologista». Letto come un richiamo a vivere lontani dalle metropoli, il libro evoca inevitabilmente il recente caso letterario internazionale, Norwegian wood. Il metodo scandinavo per tagliare, accatastare e scaldarsi con la legna (Utet), di Lars Mytting, uscito in Italia nel 2016. Con grande accuratezza, quel manuale forniva consigli su come tagliare la legna, su quale sia il periodo dell’anno migliore per abbattere gli alberi, quali attrezzi servano e come organizzare una catasta. Centinaia di migliaia di lettori di quel bestseller avevano bisogno di quelle informazioni? No, ma amavano fantasticare (su carta) un loro ipotetico ritiro nei boschi, vagheggiavano un progressivo abbandono delle città. Non abbiamo tutti il coraggio di farci eremiti, ma è sempre più forte l’impulso a immergersi nella natura, a inabissarsi in una dimensione non corrotta, rinunciando alla tecnologia, anche se riusciamo a realizzarlo solo in pochi ambiti della vita. A volte il desiderio di una vita naturale può prendere la forma di una diffidenza nei confronti della scienza e addirittura della medicina.

L’imperativo interiore è tornare indietro, imboccare contromano la strada della rivoluzione tecnologica. La teoria di questa capriola al contrario nella vita pre-industriale è stata elaborata all’interno del pensiero degli anarco-primitivisti, che rifiutano radicalmente la società industriale, pronti a ritornare a fare i cacciatori e i raccoglitori, come nel Mesolitico. Il mercato sa che non siamo pronti a fare come Paolo Cognetti, e isolarci in una baita tra i monti, ma ha intercettato questo desidero collettivo. Gli scaffali si riempiono di cibi e succhi biologici, ogni prodotto appare ecologico, appena caduto dall’albero. Ci appaga l’illusione di nutrirci in modo sano e puro: essere vegetariani, vegani, o sposare con ebbrezza la causa dei fruttariani (ovvero nutrirsi solo di frutta). La letteratura e il cibo diventano allora i primi luoghi in cui fare esperienze autentiche, sono isole incontaminate in mezzo alla tempesta della modernità. L’arcipelago comprende altre isole: i rimedi naturali, partorire in casa, partorire secondo usanze africane, l’autosvezzamento per i neonati (ogni bambino sarebbe in grado di svezzarsi da solo allungando una mano per scegliersi il cibo). E forse è proprio vivere in questo arcipelago che ci impedisce di prendere il largo. Questo richiamo alla purezza non è una novità, ha origini lontane.

FRANCE-NATURE

Si potrebbe dire che tutto è cominciato con l’incipit del romanzo pedagogico di Jean-Jacques Rousseau, L’Emilio o dell’educazione (1762), in cui Rousseau propone l’educazione a contatto con la natura: «Tutto è bene quando esce dalle mani del Creatore, tutto degenera nelle mani dell’uomo». L’uomo nasce buono, si sa, è la società che lo corrompe. Non c’è dubbio che Rousseau oggi avrebbe apprezzato l’autosvezzamento dei bebè e le pagine norvegesi su come tagliare la legna. Oltreoceano, la cultura americana, è segnata dalle riflessioni di Henry David Thoreau, che scrisse il famoso Walden ovvero Vita nei boschi (1854) in cui l’autore racconta di come voltò le spalle alla società ormai degenerata e andò a cercare la saggezza nella foresta, una saggezza che si può trovare solo attraverso l’intimità con la natura. Il suo gesto di rifiuto sarà ripetuto negli Stati Uniti all’infinito. Ancora negli anni Sessanta, le comunità californiane di surfisti, di scalatori e di hippie, davano l’addio al conformismo, all’agio degli elettrodomestici, proponendo una cultura alternativa, andando a vivere scalzi davanti alle onde oceaniche o in cima alle vette in cui finalmente realizzare la simbiosi tra l’essere umano e la natura. Ciclicamente, insomma, un’insofferenza profonda e collettiva ci sprona a tornare alla semplicità, ma solo alcuni mettono in pratica questo richiamo, per gli altri è sufficiente sprofondare nella letteratura con aspirazioni mitiche, imbottirsi di omeopatia, inforcare più spesso la bicicletta nel traffico.

Mount Fuji Climbing Season Begins

Certo, non è chiaro in cosa consista esattamente lo stato di natura in cui sogniamo di rifugiarci, e quando di preciso avremmo tradito la Natura. In che epoca e in che condizioni speriamo di tornare quando sentiamo di volerci negare le dolce alienazione della nostra epoca? Vogliamo tornare a prima delle modificazioni genetiche del mais? A prima della rivoluzione industriale? A prima della nascita della città? A prima della fondazione di Babilonia? L’antropologo Levi-Strauss faceva notare che la cesura più profonda della storia della civiltà umana è avvenuta con la rivoluzione del Neolitico. Quando quindi sentiamo l’attrazione per la natura dovremmo davvero sposare il pensiero e le pratiche coerenti degli anarco-primitivisti.

È stata la rivoluzione neolitica a instillare nell’uomo il desiderio di sfruttamento delle risorse della terra, a portare i germi dell’alienazione e dell’accumulazione dei beni, tutto ciò che porta alla distruzione del pianeta e di noi stessi. Programmando questo viaggio nella preistoria che non ci decidiamo a fare, ricordiamoci che dovremmo mettere in valigia le Georgiche, dove Virgilio esaltava la vita agricola, insegna a coltivare la terra, ad allevare il bestiame e a praticare l’apicoltura. Scopriremo così che questo desiderio di natura fa parte di noi da sempre e che, a corto di svolte radicali, pigri nel munirci di arco e frecce, possiamo sempre leggere un romanzo e andare a cena fuori. Dal macrobiotico.

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