Attualità

Masterchef visto da un cuoco

È stata l'edizione delle storie di vita, della biodiversità, dell'esotismo. Un commento sulla finale del programma di cucina più amato dagli italiani.

di Tommaso Melilli

Ieri sera c’era la finale della quinta stagione di Masterchef, e io volevo vederla a tutti i costi: in diretta e dall’estero. La Vpn che, in teoria, avrebbe dovuto permettermi di vederla in streaming ingannando le applicazioni di Sky mi ha palesemente abbandonato a dieci minuti dall’inizio, e a nulla è valso cercare di connettermi con un server fittizio della Repubblica di San Marino. Abbiamo infine visto la finale su uno schermo storto, più o meno in diretta, grazie al prezioso contributo di mio fratello, studente fuori sede, che la riprendeva su Skype con l’iPhone. Con la conseguenza che non vedevo bene i piatti e ho iniziato a fare più attenzione al resto.

La voce femminile che riassume i passaggi della gara insiste molto sul concetto dei “migliori cuochi amatoriali d’Italia” e non è un caso: molti programmi omologhi, come TopChef, non hanno il vincolo del dilettantismo: se hai lavorato anche solo per qualche mese in una cucina, una maionese non la sbaglierai quasi mai. Il fascino di Masterchef, invece, sta proprio nel fatto che, in qualunque momento della gara, qualcuno potrebbe sbagliare la maionese. In Francia, per esempio, Masterchef non ha mai preso piede: ma TopChef è pieno di giovani sous-chef di grandi ristoranti stellati che cercano di fare il salto di qualità, il che rende il programma noioso come un simulatore di guida di treni.

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I grandi errori, le sviste e i fallimenti sono senz’altro spettacolari (la vincitrice di quest’anno ha scambiato un polmone per un capocollo), ma non è solo una questione di tecnica. Il dilettantismo, oltre ai clamorosi errori e ai mappazzoni, porta con sé un’altra cosa: le storie. Perché se un concorrente è un cuoco amatoriale, vuol dire che fuori dalla cucina ha una vita. E, soprattutto, che vuole cambiarla. La quinta edizione di Masterchef è stata quella della svolta narrativa. A partire dai giudici. Con l’arrivo di Antonino Cannavacciuolo, “lo chef che ha unito l’Italia”: perché è napoletano ma lavora in un ristorante piemontese. Fino allo scorso anno, alle selezioni, all’aspirante concorrente venivano chiesti “rapidi cenni biografici”, ma soprattutto quale fosse la sua idea di cucina. Quest’anno, il tono era più che altro questo: «Com’è la tua vita? E perché vuoi cambiarla?».

Sotto questo aspetto, l’ultima stagione è stata all’insegna dell’invadenza dei giudici nella vita privata dei concorrenti. «Te lo diciamo noi perché tua moglie ti ha lasciato: perché vuoi sempre avere ragione». Oppure: «Hai trent’anni: come vivi il fatto di vivere ancora con la mamma?». All’inizio c’era anche un concorrente, Jacopo, con un bagaglio tecnico raffinatissimo ma drammaticamente incapace di impiattare in modo presentabile: è valso un momento di grandissimo spettacolo, quando alle audizioni Cracco si è messo a rifargli il piatto. Sarebbe stato bello se fosse durato, in epoca di food-porn: è uscito dopo due puntate per aver servito un carciofo nero come la pece. C’era poi l’adorabile ed enorme Dario, che aveva una stazione di servizio che però è fallita con la crisi: sognava di trasferirsi a Tenerife («soprattutto per la fiscalità»), e arrotolava tutto nel lardo. C’era il macellaio veneto di 23 anni, vincitore morale di questa edizione: all’inizio era scarsissimo, non ci credeva nessuno. Alla fine è riuscito a rifare un sushi quasi perfetto, anche se – a suo dire – l’aveva assaggiato una volta sola.

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Le due avversarie del duello finale hanno delle storie fantastiche: da una parte la ragazza madre che, abbandonata dal compagno, cerca riscatto rivisitando i tortellini ma non ci riesce mai; dall’altra la precisina un po’ bio che grazie alla cucina ha risolto le turbe alimentari di un’adolescenza difficile. Insomma, è stata un’edizione all’insegna della biodiversità, e non sto parlando di ingredienti.

Al successo di questa edizione ha contribuito infatti l’inedito tasso di concorrenti di origini esotiche, cioè due: una cinquantenne francese e un giovane libanese presuntuoso di nome Maradona. La francese, individualista, altezzosa e disgustata dallo street food, non poteva non diventare il nemico pubblico numero uno. Maradona, rapidamente diventato idolo delle folle social, era forse anche il mio preferito: è stato eliminato a seguito di una prova in cui doveva riconoscere dei funghi e, ovviamente, li sapeva in arabo. Grande solidarietà: io stesso, che non potrei partecipare a Masterchef perché sono “professionista”, la metà dei funghi li avrei saputi dire solo in francese.

Una tradizione: il vincitore era probabilmente il concorrente meno amato dal pubblico

È auspicabile che a un certo punto la produzione dovrà trovare una linea sui problemi linguistici, tanto più che anche uno dei giudici non è proprio madrelingua italiano. A questo proposito, in un pezzo di un anno fa Arnaldo Greco stigmatizzava il ruolo di Joe Bastianich, vedendoci l’ultima incarnazione del personaggio televisivo che “non sa parlare l’italiano”, come Don Lurio, Heather Parisi e Dan Peterson: mi sembra invece che, data una lingua (l’italiano) che si parla in un posto solo (l’Italia), un personaggio straniero cool che la parla a modo suo sia una benedizione.

Appunto, i giudici. La novità dell’anno, Cannavacciuolo, benché decisamente poco credibile nella recitazione, svolge il prezioso ruolo di tagliare corto sulle raffinate discussioni gastronomiche dei colleghi, perché sembra essere l’unico ad avere il coraggio di dire che una cosa è buona e basta. Cracco è probabilmente un po’ incastrato nel suo ruolo di maschio alfa senza perdere la tenerezza, ma, fra i tre chef, rimane il migliore, l’unico di cui fra vent’anni ricorderemo qualche piatto. Il più debole è probabilmente Bruno Barbieri, che sembra saper dire solo che manca il sale. Il fatto è che la svolta narrativa e esistenziale sta lentamente trasformando i giudici in life coach, tanto che ogni giudice ha ormai i suoi protégés, che sostiene, accompagna e accarezza. Da questo punto di vista il migliore in assoluto è evidentemente Bastianich, che in questa edizione è riuscito a convincerci di parlare arabo e di avere un dottorato sull’ateismo tedesco. Di gran lunga il più dotato in termini di improvvisazione, regala attimi di puro Forrest Gump.

German chef Hendrik Otto works on a zand

Rispetto ai giudici, rimane comunque abbastanza imbarazzante che a nessuno sia venuto in mente di inserire almeno una donna, tanto più che quest’anno sono diventati quattro. In realtà, anche per Masterchef USA le quote rosa sono una conquista recente: anche perché, aldilà delle questioni di equità, è una scelta che rende tutto televisivamente più interessante. Hanno provato a rimediare invitando tre chef donne come ospiti della finale, ma è una toppa.

Anche questa finale ha confermato una tradizione: il vincitore era probabilmente il concorrente meno amato dal pubblico. Perché i più amati sono spesso i più giovani, ma i giovani, oltre ad avere molte altre possibilità al di fuori del programma, sono problematici perché non hanno quasi nulla da raccontare. Dal punto di vista narrativo, a 23, quando lavori nella macelleria di papà o ti sei appena laureata e stai cercando invano lavoro, è difficile dire che vuoi “cambiare vita”, perché a malapena te ne sei costruita una. Molto più potenti sono le storie di agenti assicurativi depressi di mezza età e ragazze madri: Erica piangeva sempre e non ascoltava, parlava sempre della bimba che l’aspettava a casa e faceva quasi sempre tortellini. Come dicevo, io i suoi piatti non li ho visti, ma se non ho capito male c’era un risotto coi gamberi e le animelle. A quanto pare, c’era anche una capasanta foderata di mortadella. Al momento dell’assaggio, qualcuno, non ho capito chi, ha detto esultando che quella consistenza, paradossalmente, ricordava un tortellino.

Immagini: Johannes Eisele/AFP/Getty Images.