Attualità

La guerra civile libanese, oggi

A quarant'anni dall'inizio del conflitto che, per quindici anni, ha distrutto il Libano. Film, libri e una graphic novel che ricordano quel che è successo.

di Aa.Vv.

71482996Quarant’anni fa, e cioè il 13 aprile del 1975, iniziava la guerra civile libanese. Durato per più di 15 anni, il conflitto lascia ancora oggi i suoi segni. Tra le parti coinvolte: l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, gruppo palestinese che aveva i suoi principali campi di addestramento in Libano; le Falangi, ossia le milizie cristiane; l’esercito israeliano, entrato nel conflitto nel 1982 come alleato dei falangisti; l’esercito siriano, entrato nel conflitto nel 1976, originariamente come alleato dei cristiani; le milizie druse; vari gruppi sunniti e sciiti. Tra i risultati della guerra: più di 120 mila morti; l’esodo di un milione di persone e il conseguente cambiamento demografico del Libano, che prima era l’unico paese a maggioranza cristiana e oggi è a maggioranza musulmana; l’occupazione militare della regione della Bekaa da parte della Siria, conclusasi nel 2005; l’occupazione militare del Sud del Libano da parte di Israele, conclusasi nel 2000.

Più che ripercorrere e spiegare la sua lunga e complessissima storia, abbiamo pensato di raccontare tre film, alcuni romanzi e un graphic novel che possano aiutare a capire la guerra civile libanese.

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Maria Camilla Brunetti —

Elias Khoury, Samir Kassir

Un anno fa, in questi giorni di aprile, mi trovavo nella casa in cui all’epoca vivevo a Mar Mikhael, uno dei quartieri di Beirut Est. L’appuntamento per l’intervista con Elias Khoury, giornalista e scrittore libanese che si trovava in quel periodo a New York, era fissata di lì a pochi minuti. Sorrise quando sul suo schermo apparve il salotto della mia casa in quella Beirut Est dove è nato nel 1948 e dove è cresciuto. La connessione era pessima, come sempre a Beirut, la linea continuava a cadere. Lui non si spazientiva. «Beirut è così» diceva, «ogni cosa è complessa». Iniziammo l’intervista da Specchi rotti, il suo ultimo romanzo pubblicato in quei giorni in Italia da Feltrinelli. Si indaga la memoria, nei testi di Khoury, e quindi il presente. La memoria del conflitto civile libanese in Specchi rotti, quella della Nakba palestinese in Libano e degli anni beirutini dell’Olp ne La porta del sole, la tortura come simbolo degli abusi del potere in Yalo. Memoria, parola quanto mai sofferta in questa parte martoriata del Levante. Elias Khoury la indaga nel tentativo di delineare i crinali e le complessità di una narrativa che possa divenire costruzione di memoria civile. Specchi rotti è un attraversamento a ritroso nella storia del Libano dal 1990 – anno che “chiude” il conflitto civile – ai primi anni ’50 del Novecento. La storia di due fratelli quasi gemelli cresciuti in una famiglia cristiana di Beirut Est, Karim e Nassim Shammas che durante gli anni della guerra (1975-90) combatteranno su opposti schieramenti. Karim, la voce narrante, è un giovane intellettuale di sinistra che sostiene la causa palestinese (così come Khoury negli anni del conflitto) mentre il fratello Nassim combatte nelle falangi cristiane. Sono personaggi duali, opposti e simbiotici, tragici e mendaci che si specchiano e si definiscono nel loro rapporto reciproco, metafore delle diverse fazioni in seno alla guerra civile ma anche delle ombre e delle ambiguità di ogni appartenenza identitaria. Per comprendere le ragioni e la storia del primo il lettore deve conoscere anche la storia e le ragioni dell’altro. «Vedi» mi disse, «a me la parola identità non piace. È un concetto che trovo pericoloso, strumentalizzato da sempre per interessi di mero potere economico e politico. Dovremmo iniziare a considerare la nostra esperienza non come unica ma come multipla, come avviene dentro a una stanza degli specchi in cui le immagini si riproducono all’infinito o come nella costruzione delle Mille e una notte, storie che si aprono su altre storie. Solo in questo modo riusciremo a comprendere le complessità del presente che dobbiamo indagare».

Mi accadde di pensare che proprio in un giorno di aprile come questo, il 13 per l’esattezza, nella Beirut del 1975, nel quartiere cristiano di Ayn el Rummaneh, quello che passò alla storia come il Massacro del Bus segnò l’inizio della guerra civile libanese. Come tutto a Beirut sia così vicino da mettere i brividi. A intervista conclusa uscii per una breve passeggiata. Era notte quando arrivai sulla baia, davanti al Phoenicia, nel distretto dei grandi alberghi che era stato il cuore del jet set internazionale negli anni ’60 e della prima metà degli anni ’70 – con l’Hilton, il Normandy, il Saint George. Tra l’ottobre del 1975 e il marzo del 1976 durante la Battaglia degli Hotel diventò una zona violentissima di cecchini, spartiacque tra Est (a prevalenza cristiana) e Ovest (a prevalenza musulmana), dove si fronteggiavano le milizie cristiane da una parte e i guerriglieri del Olp e del Fronte libanese musulmano dall’altra. Rientrando mi fermai alla Maison Jaune, allo scheletro che resta di una meravigliosa casa in stile neo-ottomano, costruita nel 1924, che sorge all’angolo tra rue de Damas e rue de l’Indépendance, su quella che fu la linea del fronte che divideva Beirut Est da Beirut Ovest. Anche quelle stanze eleganti dai soffitti alti divennero avamposto di tiratori scelti. Pensavo a Samir Kassir, rientrando quella notte a casa. La sua mente cristallina di giornalista, storico e scrittore che è stata troppo coraggiosa e lucida per la violenza del luogo e del tempo che ha abitato. Nessuno come Kassir ha raccontato la complessità, la storia e la tragedia di questa parte del Levante e del suo popolo, in Beirut. Storia di una città, ne L’infelicità araba, entrambi pubblicati da Einaudi, nei saggi e nei suoi articoli di giornale. L’hanno fatto saltare in aria a Beirut, con un’autobomba, il 2 giugno del 2005. Sono passati dieci anni ma bisognerebbe riprendere in mano quei libri per comprendere il presente in cui viviamo.

Davide Coppo —

Bye Bye Babylon (Rizzoli Lizard 2012)

Non sono mai stato in Libano. Bye Bye Babylon mi è capitato tra le mani abbastanza per caso. Incuriosito, l’ho comprato. Non conoscevo molto del Libano né della sua storia tragica. Sapevo che da qualche parte doveva esserci una tragedia, ma aveva dei contorni sfumati e il cast poco definito che caratterizzavano il mio contenitore mentale etichettato: “Le molte tragedie del Medio Oriente su cui prima o poi dovrei informarmi”. Il libro di Lamia Ziadé è il modo migliore per avvicinarsi a quella storia, e lo è per due motivi: perché è un graphic novel, o meglio un romanzo disegnato, che alterna o affianca i testi ai disegni, in modo casuale e per questo funzionale, senza una gabbia particolare. I disegni non fanno parlare dei personaggi, né li fanno agire: servono, direi, per portare il lettore per mano dentro alla storia, per togliergli lo spazio dell’immaginazione. Perché il lettore non dovrebbe immaginare, visto che Bye Bye Babylon non parla di fatti inventati, ma di fatti reali: l’inizio della guerra civile libanese e la vita di Lamia Ziadé. Questo, il fatto che sia anche una specie di autobiografia, è il secondo motivo.

Non sono mai stato in Libano ma la forza del libro di Lamia Ziadé non è quella di portarli in Libano. È qualcosa di diverso, è la sincerità con cui ti dice: “Il Libano era questo, te lo saresti immaginato? Poi è successo questo, e non te lo puoi immaginare. Io ero una bambina e la mia vita è crollata”. La sua forza (oltre che nei disegni) è in frasi come queste: «Mentre, con nostra somma gioia, i carrelli e le corsie traboccano degli stessi prodotti da sogno dei supermercati di New York o di Londra, i magazzini delle milizie si riempiono di armi e munizioni di ogni genere. Di ogni tipo, provenienza e calibro. Il Libano è una vera e propria polveriera, che aspetta solo una scintilla». E: «Ma noi ci ostiniamo a credere che il nostro Paese sia contemporaneamente la Svizzera, la Parigi, la Las Vegas, la Monaco e l’Acapulco del Medio Oriente e continuiamo a spassarcela. Dai tavolini di Raouché o di Ain Mreisseh, dove ogni tanto andiamo a mangiarci un banana split, non si scorgono le bidonville sciite, né i campi palestinesi. E in ogni caso con gli occhiali da sole il marcio non si vede». Tra queste due frasi, una dozzina di pagine con le illustrazioni e le didascalie di tutti i tipi di arma da fuoco usati nel conflitto (e la loro provenienza), i simboli delle fazioni, il look tipico dei diversi miliziani, le loro rivendicazioni, e poi cartelloni pubblicitari di sigarette Kent, ragazze cristiane che bevono cocktail con ombrellini di carta in spiaggia, confezioni ultracolorate di marshmallows Kraft, ketchup Libby’s e altri prodotti occidentali. Non riuscireste a immaginare il Libano, e per questo dovete guardarlo nei disegni. Provate a immaginare questo: da domani, ovunque stiate leggendo, Milano o Roma o Napoli o Bologna, tracciate una linea sulla cartina della città. C’è chi sta a est, e chi a ovest. Se state a est, scordatevi di vedere l’ovest. Radunate le vostre cose, se avete soldi scappate. Cercate di non farvi ammazzare, e fate in fretta. Tutto il resto della vita dovete lasciarlo qui, a est, o a ovest.

Anna Momigliano —

La donna che canta (2011)

Può 1+1 essere uguale a 1? Da questa domanda, apparentemente priva di senso, si dipana la trama, terrificante e rivelatrice, de La donna che canta, film del regista franco-canadese Denis Villeneuve incluso dal New York Times nella lista dei migliori film del 2011 e ispirato dalla pièce teatrale Incendi del drammaturgo libanese Wajdi Mouawad (il titolo internazionale del film è, appunto, Incendies). L’ambientazione è quella della guerra civile che ha scosso il Libano tra il 1975 e il 1990, e più precisamente le macerie, fisiche e morali, da essa lasciate in eredità. La trama: come richiesto dal testamento della madre, donna precocemente sfatta e considerata una specie di pazza del villaggio, una giovane matematica di successo nata e cresciuta in Canada parte alla ricerca del padre che non ha mai conosciuto e di un fratellastro perduto, in un paese arabo distrutto dalle lotte intestine negli anni Settanta e Ottanta. Che sia il Libano non ci vuole molto a capirlo: ci sono i profughi palestinesi, le pulizie etniche tra cristiani e musulmani (in una delle scene più difficili da guardare un gruppo di falangisti danno letteralmente fuoco a un autobus pieno di musulmani), una milizia organizzata che ricorda parecchio l’Olp, eccetera. Anche se, sostiene alcuno, la guerra civile libanese è qui forse poco più di un pretesto per esplorare temi universali, come lo stupro, l’incesto e la follia.

Valzer con Bashir (2008)

È un film sulla guerra civile libanese che non è stato mai proiettato in Libano perché il regista, nonché autore e protagonista, è israeliano: Ari Folman, uno degli autori di In Treatment (B’Tipul), la serie sulla psicoanalisi da cui sono stati tratti prima un remake americano e poi uno italiano. Infatti in Valzer con Bashir, uscito in Israele nel 2008 e nel resto del mondo nel 2009, la psicoanalisi abbonda, forse anche troppo. La storia, interamente autobiografica, nasce proprio da una terapia fallita: quella dello stesso Folman, che combatté il Libano quando aveva diciannove anni, nel 1982. Le vicende raccontate dal film, con una bella colonna sonora anni Ottanta, sono quelle della seconda fase della guerra civile libanese, quando l’esercito israeliano, alleato con i falangisti cristiani, invase il paese (l’IDF è poi rimasto nel Sud del Libano fino al 2000). Folman però non ricorda nulla di quella guerra. I suoi compagni hanno incubi, rimorsi, ma lui niente: sa di avere combattuto in Libano, certo, ma è come se non fosse mai accaduto. Si rivolge a qualche psicologo, ma senza alcun risultato. Allora intervista i suoi ex compagni d’armi, cerca di appropriarsi delle loro memorie, dei loro incubi e forse anche dei loro sensi di colpa. La realtà che ne emerge è terribile: il diciannovenne Folman ha assistito, e forse anche collaborato indirettamente illuminando l’area, al massacro di Sabra e Shatila, la strage di profughi palestinesi compiuta dai falangisti in rappresaglia all’uccisione del politico cristiano Bashir Gemayel (il Bashir del titolo, appunto). Il film, realizzato con una tecnica d’animazione che ricorda il rotoscopio ma non lo è, ha ricevuto critiche in quanto incentrato più sui sensi di colpa del protagonista che sulla sofferenza delle vittime della strage. «Gli incubi sono sempre nostri, solo nostri», ha polemizzato su Haaretz Gideon Levy. «È come vedere un film americano sulla guerra del Vietnam,», ha fatto notare il blog “The Arabist,” «gli unici protagonisti sono gli israeliani, gli altri sono solo vittime, cattivi, o minacce lontane».

Beirut Ovest (1998)

È il film che in genere si consiglia di vedere a chi chiede un consiglio su un film da vedere sulla guerra civile libanese. Ambientato nella capitale durante primissimi mesi del conflitto, quando la divisione tra Beirut Ovest (musulmana) e Beirut Est (cristiana) era ancora una novità, il film mette in scena il punto di vista di un liceale della classe media musulmana che prova a girare un film in super8 con un amico musulmano: è una specie di romanzo di formazione, dove le vicende del protagonista si intrecciano con il collasso di una città. Forse un po’ troppo denso di cliché per i gusti contemporanei (film di formazione + protagonista maschile = il bordello ci deve stare per forza, con puttane buone che dovranno essere freudianamente materne), resta pur sempre un film da vedere, e non soltanto per la sua valenza didascalica (restando nel tema puttane buone: memorabile la scena in cui i protagonisti adolescenti attraversano le strade sotto il tiro dei cecchini grazie a un reggiseno, antico codice del mestiere). Piccola curiosità: l’autore e regista, il libanese Ziad Doueiri, ha lavorato come assistente in alcuni film di Tarantino, inclusi Pulp Fiction e Le Iene.

Finale di Coppa (1991)

Come Valzer con Bashir, è un altro film israeliano che racconta della guerra civile libanese, e in particolare dell’invasione da parte dell’IDF nel 1982, da un punto di vista israeliano. Ce ne sono molti altri, inclusi Lebanon (2009) Beufort (2007, che però racconta la guerra tra IDF e Hezbollah nel sud del Libano, che è un risultato della guerra civile libanese ma è cronologicamente successiva ad essa). A differenza degli altri numerosi film-israeliani-sulla-guerra-in-Libano, Finale di Coppa ruota attorno a una vicenda in un certo senso molto italiana: la finale del Mondiale del 1982, quella vinta dall’Italia. Due soldati israeliani sono fatti prigionieri dall’Olp. Uno di loro, che poi è il protagonista, aveva comprato i biglietti per andare a vedere i mondiali in Spagna. È un grande fan della nazionale italiana e, durante la sua lunga prigionia, i combattenti palestinesi lo tengono informato sulle vittorie dell’Italia. Il film si conclude proprio mentre Paolo Rossi segna il suo ultimo, mitico goal, solo che in questa storia non ci sono goal né veri vincitori. Sebbene un po’ didascalico, come tutti i film di Eran Riklis (suo è anche Il Giardino dei Limoni, praticamente un manualetto di conflitto israeliano-palestinese) Finale di Coppa ha però il pregio di un punto di vista molto umano, almeno nei suoi momenti migliori: la locandina con il protagonista che fa la cacca, che da un lato reca la scritta un tantino retorica “in questo gioco non ci sono vincitori” ma dall’altro ha pur sempre un uomo col culo all’aria, dice un po’ tutto sul tono generale del film.

 

Nell’immagine in evidenza, milizie armate sul lungomare di Beirut. Keystone/Hulton Archive/Getty Images