Attualità

Il Tempo al tempo di internet

Dall'orologio al radiotelegrafo, come le tecnologie hanno da sempre condizionato e formalizzato il nostro rapporto con il tempo e come oggi internet sta accelerando la percezione che ne abbiamo.

di Cesare Alemanni

Quando, nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912, il Titanic affondò nelle acque del Nord Atlantico, già il mattino seguente la tragedia occupava le colonne dei principali quotidiani sui due lati dell’oceano. Fino ad allora una notizia del genere doveva compiere un viaggio di molte ore, talvolta anche di giorni, prima che i racconti di soccorritori e sopravvissuti raggiungessero fisicamente il porto più vicino e da lì le redazioni dei giornali in ordine di contiguità. Grazie alla presenza di un radiotelegrafo di bordo, il naufragio del Titanic venne invece divulgato ai quattro angoli del globo pressoché nello stesso momento in cui accadeva e questo, unito alla grande commozione suscitata dall’avvenimento, rese gli osservatori dell’epoca acutamente consapevoli di essere testimoni di un fenomeno che superava persino la portata dramma. Il naufragio del Titanic era se non il primo sicuramente il più traumatico e discusso evento di un nuovo tipo: un evento “globale” la cui carica emotiva era stata fruita simultaneamente da milioni di persone, senza che la loro distanza dal luogo in cui si era svolto costituisse una grossa discriminante. Commentando la tragedia nei giorni successivi, molti insistettero proprio sulla novità rappresentata dalla simultaneità dell’esperienza, stupefatti di come la tecnologia avesse abbattuto le apparentemente invalicabili barriere spazio-temporali.

Sono passati 102 anni dalla notte in cui il Titanic incontrò un iceberg sulla sua rotta e oggi abbiamo a disposizione mezzi tecnologici molto più potenti, rapidi e invasivi per scambiare informazioni, il più potente e rapido dei quali è sicuramente quello su cui state leggendo questo articolo. Eppure, forse proprio perché nasciamo immersi in una “galassia” ormai già mass-mediatica, raramente ci soffermiamo a considerare gli effetti della tecnologia sulla nostra percezione dello spazio e soprattutto del tempo, e non soltanto gli effetti macroscopici ma soprattutto quelli più quotidiani e individuali.

Il rapporto dell’essere umano col tempo è intrinsecamente e da sempre mediato dalla tecnologia. Come ha scritto lo storico delle tecnologie Lewis Mumford, l’orologio è stato «il macchinario chiave della moderna età industriale».

Il rapporto dell’essere umano col tempo è intrinsecamente e da sempre mediato dalla tecnica. Come ha scritto lo storico delle tecnologie Lewis Mumford, l’orologio per esempio è stato «il macchinario chiave della moderna età industriale». Pensate al ruolo che svolse durante la rivoluzione industriale e a come contribuì a modellare una nuova organizzazione del lavoro, sostituendo la quantificazione del valore basata sul numero di ore lavorate a quella, precedentemente in uso, basata sulla quantità di beni prodotti. Milioni di contadini giunti in città dalle campagne e abituati a suddividere la loro vita agricola secondo i cicli naturali luce/buio e quelli stagionali, si trovarono di colpo a svolgere turni tarati sul tempo astratto e formalizzato dell’industria. Non a caso quindi, Friedrich Engels utilizzò l’orologio, allora presente in tutte le fabbriche, come metafora del disumano trattamento dei primi operai.

Più avanti poi, l’introduzione del fuso orario nel 1884 rese possibile sincronizzare il tempo su scala globale e non più soltanto locale, mentre la capillare diffusione di dispositivi individuali di misurazione del tempo come l’orologio da tasca e da polso contribuì ad accelerare ulteriormente la simultaneità dei più disparati aspetti della vita, sia collettiva sia individuale. Nel corso dei primi decenni del ‘900, specialmente nelle grandi città in cui il tempo del lavoro era sempre più comune e sincronizzato nacquero così espressioni come “ora di punta” o idee come la “pausa pranzo” a orari prestabiliti, mentre media radio-televisivi sempre più onnipresenti plasmavano attraverso la loro programmazione la nostra percezione del tempo extralavorativo, lasciando ben poco del nostro tempo libero privo di strutturazione proveniente dall’esterno, tra spettacoli di “prima serata” e “fasce mattutine”.

Rispetto a tutto ciò, l’avvento di internet ha prodotto numerosi effetti scompaginanti. Il principale dei quali per alcuni ha riguardato proprio il lavoro e, in un certo senso, più che un passo in direzione di un tempo ulteriormente più strutturato e sincronizzato collettivamente a prima vista assomiglia a un passo indietro, in direzione di un tempo più organico, naturale e a misura d’uomo. Da una quantificazione del valore basata sulle ore lavorate, la rete ha incentivato in qualche misura il ritorno a una quantificazione basata sulla quantità di “bene” prodotto. Specialmente per chi lavora a stretto contatto con questa tecnologia, è evidente che conta sempre meno quando e dove si lavora e sempre di più il rispetto di determinate consegne, a volte con tempi anche molto lunghi e così oggi si parla sempre più spesso di “progetti” e sempre meno di “orari” di lavoro. Ciò che importa è la finalizzazione di un determinato prodotto o servizio entro tempi pattuiti, piuttosto che il rispetto di determinati turni o il timbro di un cartellino. Conta più cosa, come e quanto si produce del quando e dove lo si produce. Pensate per esempio al famoso 20% di tempo concesso da Google ai suoi impiegati per dedicarsi a progetti a lungo termine che esulano dalle loro mansioni specifiche.

Tutto questo ha ovviamente anche degli effetti sulla nostra percezione dello scorrere del tempo e sulla sua misurazione, come Swatch si era accorta già nel 1998. Come hanno rilevato diversi studi condotti su gruppi eterogenei di volontari, esiste una diretta correlazione tra un’elevata frequentazione di internet e la capacità di calcolare con maggiore precisione e senza ricorrere a un orologio lo scarto temporale tra due intervalli. In altre parole: maggiore è la nostra esposizione alla rete e più precisa è la nostra percezione del tempo che passa. Sono state formulate svariate ipotesi per spiegare questa correlazione, e c’è anche chi ha sostenuto che sedersi tutti i giorni di fronte a un computer, con un orologio da qualche parte sullo schermo, abbia banalmente aumentato la nostra confidenza con il passare del tempo; il che in effetti non lo escluderei del tutto.  Tuttavia, una delle spiegazioni più accreditate è che essendo stati messi nelle condizioni di lavorare, produrre, fruire e interagire più rapidamente, avvertiamo una costante pressione… a lavorare, produrre, fruire e interagire più rapidamente e ciò ci rende indirettamente più precisi nel calcolare il tempo che passa senza fare ricorso a strumenti di misurazione. Secondo questa ipotesi in pratica la pressione interna a compiere azioni online ci fa percepire in modo più acuto il tempo speso per una determinata azione passata, così come prevedere in modo più esatto quello richiesto da una determinata azione futura.

Secondo lo psicologo Philip Zambardo, «Il nostro “fuso orario” individuale è stato modificato dalla tecnologia, che ha accelerato il nostro orologio interno rendendoci impazienti rispetto a tutto ciò che richiede più di pochi secondi per essere ottenuto».

Come sostiene Philip Zimbardo, professore di psicologia a Stanford e autore del saggio divulgativo The Time Paradox, «la tecnologia ha creato una specie di ossessione rispetto al tempo, un’ossessione di breve respiro, legata all’immediato presente e al futuro più prossimo». Il risultato, secondo Zimbardo, è che per quanto oggettivamente più precisa, la nostra percezione soggettiva del tempo si è accelerata: «Il nostro “fuso orario” individuale può essere modificato dalla tecnologia perché essa accelera il nostro orologio interno rendendoci impazienti rispetto a tutto ciò che richiede più di pochi secondi per essere ottenuto». Qualcosa di simile è stato notato anche da Nicholas G. Carr, autore di The shallows: «se mi sposto da un computer veloce a uno anche solo impercettibilmente più lento, che impiega anche solo un secondo di più per fare le cose, mi sembra intollerabile. Mai prima d’ora ero stato così consapevole e infastidito dal passare di appena pochi secondi». Qualcosa del genere infine è stata notata anche dal sottoscritto, ogni volta che per qualche ragione si trova offline per periodi più o meno lunghi e riscopre che nel mondo fisico non esiste niente che si trovi one click away, con effetti più o meno profondi sulla sua percezione della durata di un intervallo di tempo e di conseguenza più o meno irritanti per la sua pazienza. Dall’era della simultaneità a quella dell’istantaneità il passo è stato breve e i suoi effetti sulla nostra vita on e offline probabilmente potranno essere compresi appieno solo da chi potrà osservare questo salto con il senno di poi.

Tecnologie a parte, la casistica più ricca di esperimenti riguardo all’ accelerazione della percezione soggettiva del tempo ha a che fare con il processo di invecchiamento. È stato più volte osservato che quando un essere umano invecchia la sua percezione del tempo diventa più accurata ma anche soggettivamente più rapida. È difficile formulare una spiegazione univoca del fenomeno ma anche in questo caso sono state proposte alcune ipotesi. Una delle più convincenti è che rispetto alle due principali modalità di percezione del tempo – quella ciclica, basata sull’alternarsi dei cicli naturali delle stagioni e dei ritmi collettivi del lavoro e quella lineare, basata sulla percezione del tempo come una freccia che procede in una sola direzione – l’invecchiamento da un lato ci rende sempre più abituati alla reiterazione della prima e dall’altro sempre più consapevoli che il percorso della seconda è, almeno per noi, in esaurimento, producendo un’ ipersensibilità rispetto alla pressione esercitata dal passare del tempo, che se da un lato ce ne fa valutare più attentamente il suo utilizzo, dall’altro può talvolta tradursi in forme di angoscia e iperattività che non fanno che accelerare ulteriormente la nostra percezione del suo passaggio.

A partire dall’affinità tra gli effetti prodotti da nuovi media e quelli prodotti dall’invecchiamento sulla nostra percezione del tempo c’è chi ha voluto tirare conclusioni del tutto pessimistiche sugli effetti a lungo termine delle tecnologie sul nostro rapporto con il tempo, sostenendo che in qualche modo “ci accorgerebbero la vita”, il che, dato quanto poco realmente comprendiamo del funzionamento del Tempo (specialmente in rapporto a quanto esso conta per noi) è perlomeno azzardato se non del tutto non sense. È semmai più probabile che siamo semplicemente di fronte a un periodo di adattamento a una nuova concezione e percezione del tempo, e che, come scrive il danese Andreas Lloyd: «L’onnipresenza istantanea delle nuove tecnologie finisca col risultare in una sintesi del tempo lineare e di quello circolare, che produrrà un ulteriore accelerazione nel rapporto delle società occidentale con il tempo, al punto in cui essa, come una ruota che gira a velocità impressionante, darà l’impressione di non muoversi affatto».

 

Nell’immagine, un impiegato dell’azienda Bodet. JEAN-SEBASTIEN EVRARD/AFP/Getty Images