Attualità

I libri del mese

Cosa hanno letto a ottobre amici e collaboratori di Studio.

di Redazione

David James Poissant – Il paradiso degli animali (NN Editore)

cover1Nel primo racconto de Il Paradiso degli animali un padre scaraventa il figlio fuori dalla finestra perché lo becca a baciarsi con un ragazzo. Rimasto solo, trascorre il tempo in compagnia di un amico con le braccia rivestite di draghi verdi: «Dice che se guardi bene tra le squame vedi un paio di donne nude». I due a un certo punto cercano di salvare un alligatore. Per farla breve: personaggi destituiti (Carver e tutti gli altri) la cui vita quotidiana è irrotta da strane manifestazioni naturali (Breece D’J Pancake) con occasionali riserve di ironia e di affetto per se stessi (Lorrie Moore). In La fine di Aron, una ragazza resta appiccicata al protagonista a dispetto di chi cerca di definire la loro relazione: «I pasti me li pago quasi tutti da sola, così posso fare scorta per le settimane in cui Aaron perde un po’ la testa. La sua terapeuta lo chiama assecondare, io lo chiamo amore. Dice che io sono un problema, e io ho accettato di non essere d’accordo». Era da tempo che non leggevo una raccolta così bella; il mondo di Poissant è brutale ma anche molto ingenuo e fresco. Come in tutti gli esordi, si sente ancora la voce di alcuni maestri, ma non è abbastanza decisa da impedirmi di riconoscere la sua. Il mio nuovo autore da tenere d’occhio.

(Claudia Durastanti)

 

Zach Klein, Noah KalinaCabin Porn (Little, Brown and Company)

9781846148804Negli ultimi tempi, quando entro in libreria, assolti i doveri professionali, mi soffermo soprattutto nel settore cucina. Lo so, è un giudizio del tutto idiosincratico: ma mi sembra che i libri “belli”, curati esteticamente, inventivi dal punto di vista grafico e tipografico, che ti viene voglia di sfogliare e prendere in mano, tra quelli fatti in Italia, oggi, li si trovi soprattutto in quel settore lì. Forse tutto ciò dice qualcosa del nostro Stato (siamo davvero una Repubblica dei cuochi) ma di certo dice qualcosa sul mio, di stato: negli ultimi tempi guardo solo le figure. Sarà per questo che il libro più bello che ho letto, o meglio: guardato, nell’ultimo mese è un libro fatto soprattutto di fotografie (ma non di cucina, e del resto è un libro americano). Si intitola Cabin Porn, nasce dal tumblr omonimo – tra l’altro il social più legato alle immagini e al vagabondaggio tra esse – ed è una raccolta di immagini di capanni. E basta. Capanni, baracche, case sull’albero, casupole: moduli abitativi minimali ma sempre dispersi in un ambiente naturale di sovrumana bellezza, isolati, tra le brume delle alpi norvegesi, in un bosco del Colorado, su qualche microisola di un arcipelago svedese. Il fascino di queste immagini, almeno su di me, è chiaro, immediato, basico (porno, appunto): avventura, ma soprattutto isolamento, fuga, quiete. Come un quadro di Friedrich ma con meno turbamento. Innocue e passeggere fantasie di morte. Commerciale se volete, senz’altro borghese – cosa c’è di più borghese del sogno della fuga nella natura? Via dalla pazza folla! Che volete farci, sto invecchiando. Ma il volume è bello e costa meno di un capanno vero o di un vero antidepressivo. Alla fine i libri servono anche a questo.

(Francesco Guglieri)

 

Julio Cortázar – Così violentemente dolce. Lettere politiche (Sur)

unnamed-2Alla politica, c’era arrivato tardi, e controvoglia. Quando da sconosciuto Cortázar aveva lasciato l’Argentina il gioco (serissimo) della letteratura gli era quasi sembrato sufficiente e poco male se sotto il «monocorde e sinistro cielo degli anni Cinquanta» tutto sembrava immobile e stantio. Per uno come lui c’era ben altro e all’attualità, alla cronaca, ai riti stanchi e ipocriti del potere, aveva sempre contrapposto mille sortilegi da Cronopio, e fiabe e incanti. Dopo la Baia dei Porci – e ormai famoso – semplicemente non può più tirarsi indietro (e non vuole farlo). Adesso un’altra e grottesca realtà gli abbaia addosso e l’autore di Rayuela risponde a modo suo, con rabbia e amore, o con violenza e dolcezza, se vogliamo. I testi raccolti nel terzo volume (politico) del suo epistolario sono la testimonianza a tratti anche irritata, dolorosa, sofferente, di un salto di paradigma, di una rottura. L’ora e il giorno costringono Cortázar a inoltrarsi in una terra straniera, e inospitale, e a costringerlo a scrivere queste lettere «lunghe più di un giorno senza vino», e a rovinarsi il sonno e a guastarsi il fegato. Semplicemente, sentiva di doverlo fare, c’era obbligato. Cuba, il Cile di Allende, l’Argentina, il Nigaragua, il Tribunale Russel. Così violentemente dolce è il documento (straordinario) di un processo innaffidabile, e arrischiato. All’inizio gli era sembrata anche una liberazione: Cuba, i viaggi, la politica li aveva accolti anche come un modo per superare «quella timidezza malsana e in fondo assurda di noi che abbiamo sempre capito il mondo intero chiusi tra quattro pareti e davanti alla macchina da scrivere». Scrittore politico controvoglia, poi s’era accorto di non aver più tempo per sé, e per i suoi fantasmi , e i suoi romanzi ( «i miei impegni politici mettono il Cile e l’Argentina in primo piano e ho sempre meno tempo per tirare fuori i gessetti dalla tasca e disegnare il gioco del mondo su un marciapiede»). Sia come sia, restava un autentico Cronopio e un visionario. È un dato di fatto: in oltre vent’anni di militanza Cortazar non si è lasciato mai incastrare dall’ideologia. Del resto la sua posizione teorica era chiarissima: «Non credo nei modelli ma credo negli esempi; non credo nelle cristallizzazioni sociali ma credo in una dialettica rivoluzionaria verso la libertà e la felicità dell’uomo».

(Vittorio Giacopini)

 

Letizia Muratori – Animali domestici (Adelphi)

64531e6e32356bcb50d022bce2e2f49b_w600_h_mw_mh_cs_cx_cySi intitola Animali domestici e gli animali domestici sono almeno dieci persone diverse. La protagonista è Letizia, una scrittrice romana che a quarant’anni non si sente «poi tanto cresciuta, solo vecchia»: sbaglia continuamente i mariti. Prova a farsi da sola un bilancio, ma non è capace. In realtà non ne ha voglia, di bilanci, e glielo dice Edi Sereni, Edi che è bravo a vivere senza tirare le somme con troppo anticipo. È un giornalista, padre dell’amica di Letizia, Chiara, e si conoscono da sempre. Edi Sereni, il boss delle confidenze, sembra Nathan Zuckerman riscritto da Philip Roth in una mattina di buonumore: eliminati l’odio universale e le frustrazioni del sesso nevrotico, resta solo un talento innato a decifrare i vari sconforti dell’esistenza e a trattare male la ragazza che si ritrova in casa (ai Parioli) per quel mese. «Edi aveva la capacità di tirarmi fuori il peggio, ogni parola che dicevo era di una noia mortale», racconta Letizia, e naturalmente: il peggio viene tirato fuori per farle imparare qualcosa. Metterti in guardia, riportarti coi piedi per terra, non esporsi al ridicolo sono sempre stati i capisaldi dell’ammaestramento continuo cui ti sottoponeva se gli andavi a genio. Edi aveva il culto dell’abilità, di volta in volta ti forniva gli strumenti per metterla alla prova. Edi e Letizia sembrano immediatamente perfetti per stare insieme, quindi non stanno insieme. Si capiscono, quindi possono piacersi solo a tratti e senza troppa convinzione. Si somigliano, quindi da anni non riescono neanche a odiarsi per l’ultima volta. Come capita sempre, è da certe non-relazioni che viene fuori letteratura scintillante, e qui è nei dialoghi che alla Muratori riescono con una naturalezza imprendibile: Edi «Non ti offendere subito, è da complessati»; Letizia «Se sai sempre tutto in anticipo, che vivi a fare?». Che siano infelici tutto il tempo importa poco, il racconto lo perdi volentieri di vista per metterti a guardare il paesaggio, gli altri Animali Domestici: c’è Tullio, l’editor fanatico di Letizia «Io non sono nessuno, tu non sei nessuno, siamo qui per servire il libro»; Chiara, l’amica debole fin dalle elementari «di questo si trattava, somaraggine. Era tutto un ragionare a passetti, a piccole conquiste, finché a giugno si diceva sollevati: ce l’ha fatta»; la nonna che non andava alle recite di fine anno «perché la facevano vergognare. Nonna è sempre stata una nemica giurata del divertimento senza talento». E poi finisce come sanno finire solo certi romanzi: non sapresti raccontare bene la trama, ma i due protagonisti te li ricordi per nome – questa è anche una delle rare volte in cui la storia d’amore non c’entra

(Ester Viola)

 

Serena Vitale – Il defunto odiava i pettegolezzi (Adelphi)

df4d823d920d57ed645a7c7396b12b17_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyIl suicidio di Vladimir Majakovskij, avvenuto a Mosca nell’aprile del 1930, è tuttora uno dei grandi buchi neri della storia e della cultura sovietica. Ci si arrovella ancora per capire se sia stato o meno un suicidio, e si accusano a turno di complicità o istigazione gli amici, le amanti (dalla Brik alla Polonskaja – che si trovava nella stanza del poeta quando partì il colpo di pistola che gli maciullò il cuore o forse no, forse ne era appena uscita), i membri del Partito, addirittura Majakovskij stesso, che per i suoi detrattori era un poeta finito e vide nella morte tragica l’unico viatico per l’immortalità letteraria. Serena Vitale, a Mosca, è entrata negli archivi di Stato (ora accessibili al pubblico), ha letto lettere, dispacci, note dei servizi segreti, ha ascoltato “voci di strada” recuperate nei libri e nelle corrispondenze di tutto quel mondo che, quella sera di aprile, rimase sbigottito e incredulo: con Majakovskij, del resto, finiva un’epoca, e il grande cantore (disilluso e solo, ma questo sembra sempre contare troppo poco nelle biografie a lui dedicate) della rivoluzione non c’era più. Vitale ne ha tratto un libro straordinario, sospeso tra filologia, testimonianza, narrazione, pastiche, ricerca storica: sposa una tesi (non vi dico quale) e crea una straordinaria allegoria di un mondo che non c’è più ma che continua a parlarci da lontano e a svelare, a poco a poco, i suoi misteri.

(Andrea Tarabbia)

 

Jessica Abel – Out on the Wire (Broadway Books)

61X9OYgAVCL._SX388_BO1,204,203,200_Nel 1999 Jessica Abel è una fumettista emergente, vive a Città del Messico e quando disegna ascolta spesso le trasmissioni radio statunitensi via internet, modem 56k permettendo. La sua preferita è This American Life, programma di discreto successo nel circuito delle radio pubbliche americane. This American Life da qualche anno racconta in maniera originale storie di persone comuni. Il formato della trasmissione è inconfondibile: montaggio meticoloso, attenta scelta della colonna sonora e dei rumori di fondo e soprattutto un gusto particolare per la narrazione. La redazione perde anche quattro mesi dietro a una singola puntata. Una mattina squilla il telefono a casa di Jessica. È Ira Glass, il conduttore e ideatore di This American Life. Chiama perché vuole proporle una collaborazione. Nasce quel giorno Radio: an illustrated guide, un fumetto promozionale e autobiografico, didascalico ma interessante, dove Ira e colleghi raccontano il dietro le quinte del programma.  Salto in avanti nel 2015: Jessica Abel è diventata uno dei nomi più apprezzati nel mondo del fumetto alternativo, ha vinto una manciata di premi e pubblicato cinque graphic novel. This American Life è diventato un fenomeno mediatico su scala globale, ha aperto la strada a decine di nuove trasmissioni simili, e i podcast di storytelling delle radio pubbliche americane fanno registrare numeri di ascolti e download impensabili solo qualche anno prima. Jessica decide allora che è il momento di tornare a disegnare cose di radio e di raccontare dall’inizio, dai suoi anni a Città del Messico, la sua passione per questi programmi. Nasce così un nuovo fumetto, Out on the wire. Questa volta, oltre a Ira, appaiono anche i curatori di altre trasmissioni della “new wave radiofonica di giornalismo narrativo” (o comunque vogliate chiamarla, un nome non gliel’ha ancora trovato nessuno): Radiolab, Snap Judgment, 99% invisible, The Moth. Quello che ne viene fuori è un lavoro insolito, un prodotto ibrido (contiene anche delle pagine di Radio del ’99) e di difficile definizione, un fumetto che si fa però sempre più interessante e più complesso a ogni capitolo. Out on the wire rischiava di essere una autocelebrazione della profondità e dell’acume di una certa scena culturale statunitense, una prova di stile autoreferenziale e fine a se stessa (e anche in questo caso, lo ammetto, mi sarebbe probabilmente piaciuto molto ). Per fortuna riesce però a essere più di questo. È prima di tutto una dichiarazione d’amore per la radio e un manuale prezioso per chi la radio vuole farla. È il racconto di cosa succedendo alla radio in questi anni. Ma è anche e soprattutto un’analisi minuziosa su quali sono i meccanismi che rendono una storia appassionante, non solo a livello radiofonico. Una riflessione sull’arte del raccontare storie e sul perché come esseri umani siamo irrimediabilmente attratti dalla narrazione.

(Matteo De Giuli)

 

Livia Manera Sambuy – Non scrivere di me (Feltrinelli)

sambUn libro a metà tra una raccolta di classiche interviste old style e racconti di autofiction che vedono al centro la connessione continua tra la storia dell’Io narrante e la materia letteraria che la sua vita ha conosciuto e indagato.  L’autrice porta il lettore nei mondi di tanta letteratura americana. Ci conduce da David Foster Wallace in un fast food sull’autostrada a scoprirne da vicinissimo tanto il pensiero sociopolitico sull’America contemporanea quanto le idiosincrasie e le ossessioni personali. Ci mostra un James Purdy, nudo e orgoglioso nella propria indigenza, raccontarci di denaro mai cercato e d’amore narrato come un dio violento che la borghesia confonde con panna montata.  Ci porta poi, tra gli altri, dal suo Philip Roth, in un vortice di incontri e telefonate lunghissime, discussioni sulle Lettere e sulle proprie vite, risvolti privati dello scrittore messi a nudo nella biografia a tappe dell’amicizia di una vita, prestando la giusta noncuranza a quel suo avvertimento-invito che dà il titolo a questo libro: non scrivere di me. Ottimo per chi non resiste alle storie di storie, alle vicende più che all’aneddotica di vite consacrate a una devozione artistica eterna, all’incrocio di più voci a definire un tempo. La letteratura come filo rosso di ogni passo nel mondo, sia esso solitario o collettivo.

(Giulia Cavaliere)

 

Autori Vari – I mari di Trieste (Bompiani Overlook)

6477165_817312Le fotografie dei tuffi a clanfa (in triestino, il ferro di cavallo) di Diego Artioli, dopo essere state riprese dal Financial Times, sono diventate l’inserto prezioso di un piccolo libro antologico sugli stabilimenti balneari di Trieste, curato da Federica Manzon, e finito nella mia libreria principalmente perché sono friulana, e nomi come Barcola, Cedas, il Pedocìn, l’Ausonia, e Mira Mare mi suonano come parole di famiglia. I mari di Trieste è un coro di risposte d’autore alla domanda «che cos’è, per lei, il mare della sua città?». Il quadro che ne risulta, pur prevalentemente marino, rende giustizia alla natura ibrida di Trieste attraverso le voci di scrittori “diversamente acquatici” (Gillo Dorfles preferiva la montagna, e vedeva i bagni “solo” come punto d’incontro con Bobi Bazlen o Italo Svevo per giocare a bocce); Magris attribuisce con precisione alla città «l’apertura cosmopolita tipica delle civiltà marine e rivierasche« e «l’anima mitteleuropea […] laboratorio del disagio e dell’analisi del disagio […], di chi attraversa la vita ben intabarrato nel suo loden». Tutti gli interventi, in consonanza con fotografie che sembrano ritrarre un modo antico di praticare il mare, suonano come confessioni intime, tardive e non necessarie: cronache dettagliate di dove si sono bagnati i grandi scrittori, in diversi periodi dello scorso secolo, e di come la scelta del lido fosse manifestazione di uno status culturale (al Lido Lanterna, dove maschi e femmine erano separati, andava Pahor bambino, e con la mamma si poteva incontrare solo in mare, lontano dalla palizzata divisoria), generazionale (la Diga è sempre stata adolescenziale, ruspante, poco chic) e storico (sempre per Pahor, il mare coincide con l’esistenza felice prima del fascismo, e dunque prima della ghettizzazione degli sloveni). Tutti associano il mare a una generica infanzia, e quasi sempre a un’infanzia di lidi bradi, poco attrezzati: i tempi del ping-pong e del clic-clac, quando non si insegnava ai bimbi a nuotare, ma li si buttava in acqua; o quando, come ricorda Covacich, gli adulti non si dedicavano anima e corpo ai bambini come oggi, e allora il rito del bagno coi papà era un momento capitale. Il mare di Trieste è anche lo specchio sonoro di una città, da dove si alzano tante lingue: un posto dove sguaiate signore d’oggi parlano in dialetto della LAPSDANZ (lapdance, ndr), mentre il bagnino ex-marinaio austroungarico interroga un giovane Claudio Magris natante sul «come si dice cavalla in tedesco», e lui, prontamente, risponde «Die Stute», guadagnandosi un ingresso al lido di straforo. I mari di Trieste più che un libro è un oggetto, come la bandiera dell’Italia con scritto Trieste sul bianco, che ho trovato in cantina pochi anni fa. Più che un oggetto, è un luogo, in cui cadere, con un tuffo a bomba, di testa, o, meglio, a clanfa.

(Arianna Bonazzi)

 

Emanuele Severino – Dike (Adelphi)

4d5e140791608ebecb2e8830e039ddfc_w600_h_mw_mh_cs_cx_cy«La vita che vivo l’ho vissuta da sempre e la vivrò per sempre» è una delle frasi più solenni e decisive ripetute da Severino durante le sue lezioni, e che accende dibattiti e scontri tra i suoi studenti dell’Università San Raffaele. Una frase che non si lascia sfiorare, e non può, dall’umiltà e dal dubbio. Ma anche una delle più fraintendibili, se applicata ai dogmi della religione, se lontana dal reticolato di una ricerca filosofica che poggia sul suo primo libro, La struttura originaria, e che mai se ne discosta. Difficilmente si può capire Severino se non si è passati per La struttura originaria. Cercate di immaginare un linguaggio che non può essere smentito (o che perlomeno nessuno finora è riuscito a smentire). Cercate di immaginare argomentazioni che al di là delle opinioni e della fede dimostrano l’eternità di ogni cosa e vi farete una vaga idea. Quel libro rappresenta una sfida intellettuale irrinunciabile per chiunque volesse penetrare capillarmente la circolazione sanguigna della cultura occidentale. Si può accennare a questi temi in poche righe? Un esempio, il più eloquente: ogni cosa compare e scompare, nascere e morire non sono un entrare e un uscire dal nulla; ogni cosa è attesa da una Terra che salva, e in cui tutto è salvato nella sua concretezza. Perché l’uomo non se ne accorge? Come quest’ultimo libro ampiamente dimostra, è Dike, parola che designa l’incondizionata stabilità del sapere (e che perciò determina il percorso culturale dell’occidente), a sfigurare il volto dell’eternità necessaria. È obbligatoria una glossa: leggere Severino è per me, da anni, l’unica esperienza culturale che davvero conti.

(Alcide Pierantozzi)