Attualità

Il mito dell’obiettività dei giornali americani

E come siamo messi in Italia, a partire da una polemica sul New York Times.

di Anna Momigliano

Nel gennaio del 1939 The Atlantic Monthly, la rivista statunitense che oggi si chiama semplicemente The Atlantic, pubblicò un articolo scritto da una giovane donna di origini tedesche che simpatizzava per Adolf Hitler. Provava a spiegare agli americani il punto di vista dei nazisti, che per carità su alcune cose esageravano pure, ma avevano le loro ragioni. A onore del vero, a quei tempi non si sapeva ancora che il Terzo Reich avrebbe ucciso sei milioni di ebrei e gettato l’Europa nel suo periodo più cupo a memoria d’uomo, però le sue idee erano già percepite come impresentabili, e per un’ottima ragione, nella maggior parte dei Paesi democratici. Presumibilmente, gli editor si saranno detti che era il caso di mostrare «anche il rovescio della medaglia», fedeli al principio che «ci sono due versioni di ogni storia» e che entrambe meritano di essere raccontate, non importa quanto folle uno dei due possa essere. È quello che si dice un esempio di «false balance», un’equivalenza errata o eccesso di imparzialità, un errore in cui talvolta incappano i giornalisti eccessivamente ansiosi di apparire neutrali, e che finiscono per presentare come equivalenti, o quasi equivalenti, due posizioni che in realtà non meriterebbero affatto di essere messe sullo stesso piano. Potremmo definirla, semplificando parecchio, una par condicio a tutti i costi. Secondo alcuni, è quello che sta rovinando il giornalismo.

Si tratta, com’è facile intuire, di una questione più sentita del mondo anglosassone, dove il mito del giornalismo fair and balanced è più sentito e qualcuno comincia a domandarsi se sia davvero una buona cosa. Ma la questione s’è presentata anche in Italia e in Europa, per esempio davanti al dibattito sui cambiamenti climatici e a quello sui vaccini. Alcuni media, incluse testate assai serie, hanno riportato opinioni di esperti che negano l’esistenza del riscaldamento globale e di esponenti del campo anti-vaccini, fedeli al principio che bisogna “fare sempre sentire l’altra campana”. C’è davvero bisogno di dare spazio a due campi opposti, quando è evidente che uno ha torto marcio? Non si rischia di dare l’impressione sbagliata, e cioè che esista un’equivalenza che in realtà non c’è? E, se presentare entrambe le campane pone un problema di falsa equivalenza, allora qual è l’alternativa, censurare una delle due?

A proposito di questo tema in questi giorni negli Stati Uniti c’è stata una polemica intorno al New York Times. Alcuni lettori l’hanno accusato di essersi macchiato di false balance a causa della copertura di alcune criticità di Hillary Clinton. Il quotidiano newyorchese ha dato infatti spazio al dossier dei presunti conflitti d’interesse della Fondazione Clinton e alla vicenda delle cosiddette “Clinton emails”, i messaggi mandati da Hillary quando era Segretario di Stato utilizzando l’account ufficiale. Ora, il Nyt ha solidissime credenziali liberal e nessuno mette in dubbio che simpatizzi più coi Democratici che coi Repubblicani, specie ai tempi di Donald Trump, che il giornale ha spesso descritto alla stregua di un clown. Quello di cui lo si accusa è di avere dato un risalto sproporzionato ai difetti della candidata progressista, finendo per metterli quasi sullo stesso piano di quelli del suo avversario, per una sorta di deformazione professionale che l’avrebbe spinto a un’imparzialità forzata.

Giornalisti con Hillary Clinton

Ha risposto a queste critiche lo scorso 10 settembre la public editor ( la figura che funge da controllore per conto dei lettori) Liz Spayd. Da un lato la giornalista ha difeso la linea della sua testata, spiegando che la copertura delle Clinton Foundation, e in misura minore quella delle email, era ben motivata dal fatto che si trattava di questioni su cui il pubblico meritava di essere informato. Dall’altro ha liquidato la questione del false balance come un falso problema di per sé: «Non posso non pensare che le lamentele di questo genere siano di natura ideologica», scrive. «È una dottrina che si maschera da pensiero razionale, ma in realtà quello che stanno chiedendo i suoi sostenitori è che i giornalisti applichino il loro giudizio morale ai candidati». Il solo fatto di sollevare un eccesso d’imparzialità come questione, prosegue, è «un terreno scivoloso» che potrebbe portare a insabbiare tout court i difetti o le scorrettezze di un candidato perché quelli del suo avversario sono assai peggiori. In altre parole la risposta di Spayd si basa su due argomentazioni. Primo: il New York Times non è colpevole di false balance. E, secondo: il false balance non è un problema, punto.

Sul primo punto, però, è stata più convincente che sul secondo. Lo ha fatto notare, per esempio, Justin Peters in un commento su Slate. Peters concorda sul fatto che il Nyt è difficilmente criticabile di una presunta par-condicio-a-tutti-i-costi per il semplice fatto che, a conti fatti, non ha mai messo Trump e Hillary sullo stesso piano: chi legge il quotidiano newyorchese ha perfettamente chiaro che dipinge il tycoon repubblicano per quel pericolo alla democrazia che è, e che le critiche a Hillary erano di tutt’altro tono. Però, continua l’analista di Slate, pensare che il problema del false balance non esista è ingenuo nella migliore delle ipotesi: «Fa parte di un problema più ampio che dice che i giornalisti non dovrebbero avere opinioni». È un modo di pensare diffuso e deleterio, spiega. Prima di tutto perché «le persone bene informate, che scrivono, studiano e osservano, devono avere delle opinioni». E poi perché, anche quando queste non sono dichiarate esplicitamente con un giudizio, il solo fatto di scegliere una notizia piuttosto che un’altra (perché è evidente che non si può scrivere di tutto) è di per sé una forma di giudizio, e fingere che non lo sia è intellettualmente disonesto: «Ogni articolo di giornale è la somma di un milione di piccoli giudizi». Il problema dunque è che «l’obiettività del giornalismo è diventato un mantra» e, col tempo, «una forma d’inerzia opprimente».

Per un lettore italiano sembrano discorsi lontani. Da noi non c’è nessun totem dell’obiettività, che sia forzata o meno: siamo figli di una cultura giornalistica dove va di moda citare Gramsci, quando diceva «odio chi non parteggia, odio gli indifferenti». Meglio così, verrebbe da pensare seguendo la recente polemica americana, che ha fatto emergere le contraddizioni del mito di un’informazione fair and balanced. C’è però un aspetto di quella polemica che può essere interessante, e forse persino utile, anche per noi. Perché una parte della stampa anglosassone sta riflettendo sul come essere fair, cioè giusto e intellettualmente onesto, a volte implichi non essere affatto balanced, o imparziali. S’è intavolata una discussione acuta, sulla necessità di un giudizio, ma anche sulla natura del giudizio. Quello che ne è emerso è che l’antidoto a un’imparzialità ingiusta non è la partigianeria, ma l’onestà intellettuale.

La sala stampa della Casa Bianca, Halloween 2015 (YURI GRIPAS/AFP/Getty Images); dei giornalisti intorno a Hillary (Justin Sullivan/Getty Images)