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Testaccio come New York

La gentrificazione delle città italiane: perché se ne parla poco? E, soprattutto, perché si è iniziato a parlarne così in ritardo? Due chiacchiere con la sociologa Irene Ranaldi, che ha scritto un libro su Testaccio e Astoria, a New York.

di Alberto Mucci

Irene Ranaldi è dottore di ricerca in Teoria e Ricerca Qualitativa, facoltà di Sociologia presso l’università La Sapienza di Roma. È specializzata in “gentrification.” Insomma quel fenomeno per cui ex quartieri popolari, dopo l’arrivo di quella che Richard Florida ha definito la classe creativa, si trasformano e diventano più costosi costringendo gli abitanti originali a spostarsi in altre zone della città, spesso più periferiche, di cui negli Usa e nel Regno Unito si parla oramai da decenni ma che soltanto di recente è entrato nel linguaggio comune italiano. Se il primo articolo sulla “gentrification” nell’archivio del New York Times risale al 1974, stando alle nostre ricerche il primo sul Corriere della Sera è apparso soltanto nel 2003. In un libro prossimo alla pubblicazione (entro l’estate) Ranaldi ha confrontato la “gentrification” di Astoria, New York, con quella di Testaccio, Roma. Studio ha contattato l’autrice per capirne un po’ di più.

Ci sono molti modi di definire la gentrification. Lei che da presupposto parte?

Sarà scontato ma devo dirlo, una definizione univoca non c’è. Si possono comunque individuare due grandi scuole. La prima analizza la “gentrification” dal punto di vista dell’offerta. Ovvero dal punto di vista del mercato immobiliare, delle decisioni dei grandi investitori. Il secondo guarda alla “gentrification” dal punto di vista della domanda, in altre parole delle scelte dell’individuo. La mia analisi appartiene a questa seconda linea di pensiero, la stessa adottata dalla sociologa americana Sharon Zukin secondo la quale il motore alla base della “gentrification” è una ricerca di autenticità da parte di persone appartenenti ad una determinata sottocultura.

In uno dei primi articoli sulla “gentrification” apparso sui giornali italiani il termine è tradotto con “borghesizzazione”. Cosa ne pensa?

Mah, in verità non lo trovo del tutto appropriato.

Perché?

Semplifica un processo complesso in cui si devono prendere in considerazione numerose variabili, non solo la trasformazione di un’area da quartiere popolare a quartiere abitato per lo più dalla classe media. Sono anche convinta che non ci sia bisogno di tradurre il termine “gentrification”. È un neologismo anglosassone che nasce in un determinato contesto a Londra nei primi anni Sessanta e così dovrebbe rimanere.

Quindi il fenomeno degli Stati Uniti non è comparabile con quello italiano?

La risposta è, ancora: dipende. Ci sono differenze soprattutto in termini temporali, ovvero: il momento in cui il fenomeno “gentrification” si è affermato. Negli Stati Uniti è dagli anni Sessanta che gli studiosi ne parlano. In Italia invece si è iniziato a discuterne in maniera non occasionale soltanto dal 2010, dopo la traduzione del libro di Sharon Zukin. Per fare un esempio più concreto: quando a La Sapienza ho presentato l’idea per la mia tesi di dottorato sulla gentrification, parte della commissione mi ha guardato con un certo stupore perché non esiste letteratura italiana sul fenomeno e tre/quattro anni fa se ne parlava pochissimo. A conferma, basta considerare che il numero di studi condotti da ricercatori italiani sul tema della “gentrification” è molto limitato. Ce n’è stato uno del 2009 dell’Università di Genova in cui si analizza la migrazione a Napoli, Genova e Firenze. Su Roma studi pubblicati ancora non esistono.

Quali sono secondo lei i motivi per cui il fenomeno è arrivato dopo in Italia?

Un elemento di diversità da tenere in considerazione è quello della mobilità. In Italia, in media, nelle grandi città, si cambia quartiere una, due, tre volte massimo, mentre negli Stati Uniti questo avviene molto più di frequente. Anche i trasferimenti da una città all’altra sono molto più comuni che da noi. In Italia siamo anche molto più legati all’identità del quartiere. A Roma ci sono per esempio i testaccini, i trasteverini e via così. In parte questo accade anche negli Stati Uniti, ma soltanto per alcuni quartieri e non in maniera così definita.

Può raccontarci del caso Testaccio?

Si. La “gentrification” del quartiere è iniziata a metà degli anni Settanta, quando dopo un periodo di recessione economica a seguito della chiusura del mattatoio (oggi la sede periferica del Macro) sono cominciati ad arrivare artisti e gruppi di attivisti culturali. Erano gli anni del Teatro Tenda, della scuola popolare di Testaccio diretta allora da Giovanna Marini, di quando ancora semi-sconosciuto, nel ’78, Benigni presentò il suo primo spettacolo teatrale (“La Corte delle Stalle”). In quegli anni alla cultura del comune di Roma c’era Renato Nicolini (Pci) il creatore dell’estate romana. Fu lui a inserire Testaccio nel circuito di eventi dell’iniziativa e far riscoprire il quartiere.

Perché il paragone con Astoria?

Ho scelto Astoria perché i due quartieri sono abbastanza paragonabili. Se avessi per esempio scelto Brooklyn non avrebbe avuto alcun senso fare il paragone con Testaccio: il distretto è troppo grande e contiene in sé identità molto diverse. Astoria invece ha un’identità forte e unica, è il quartiere greco, il quartiere di Maria Callas. Ma a parte il passato, quello che ho trovato interessante nel confronto è il processo di brandizzazione dei due quartieri. Sia Testaccio sia Astoria sono riusciti, parallelamente al processo di “gentrification”, a imporre una loro identità sull’immaginario collettivo. Anche oggi a Roma si pensa che Testaccio è il posto dove si “mangia romano”anche se in verità di romano c’è ben poco. Lo stesso vale per Astoria e il “mangiare greco”.

È per forza una cosa negativa?

No, non per forza, ma in questo contesto sì. Il quartiere è trasformato in una esperienza di consumo parassitario; è come se diventasse un contenitore di un senso estetico e poco altro.

Il prossimo quartiere di Roma più gentrificato, secondo lei?

Probabilmente il Quadraro, non a caso scelto da artisti di street-art internazionali per opere murarie, perché sulla linea di San Lorenzo, del Pigneto e della Casilina.

Il processo di gentrificazione è irreversibile?

Credo di sì. Una volta che un processo sociale si è innescato e ha portato a cambiamenti di stile di vita questi perdureranno a lungo.

Trova ci sia un elemento conservatore in questa ricerca ossessiva di autenticità, del “com’era una volta”.

Penso di sì. La maggior parte dei “gentrifiers” appartengono a una sotto-cultura  che nonostante una pretesa di criticità verso lo status quo non mette in discussione i suoi valori fondamentali. La conferma è che questi aspetti critici hanno spesso carattere estetico. Rifiutano l’omologazione della catena di negozi e vanno al negozio vintage e simili. Non sono i Ginsberg de “L’urlo” anche se in qualche modo lo vorrebbero essere. Sono spesso un’imitazione affascinata dal passato come se andando a vivere a Testaccio potessero rivivere scene dell’Eclisse di Antonioni.

Francesco Pacifico, scrittore romano che ha parlato spesso di “gentrification”, si definisce hipster-democristiano. Che ne pensa?

Mi piace la definizione, la trovo calzante. Voglio raccontarti un piccolo aneddoto: quando una mattina ho incontrato a Testaccio un ragazzo che si potrebbe appunto definire un hipster portare al guinzaglio un furetto ho capito che era giunto il momento di osservare e scrivere di questi cambiamenti.

Di gentrificazione si parla quasi sempre in termini critici. Qual è la differenza con un processo di riqualificazione?

Penso che ogni processo di rigenerazione urbana e di riqualificazione contenga in sé sempre il rischio della “gentrification” intesa come espulsione delle fasce più fragili della popolazione sia in termini economici sia in termini culturali. Per questo motivo è importante, durante il processo, mantenere un tessuto di prossimità, ovvero i piccoli negozi di quartiere, gli attraversamenti nello spazio pubblico che non deve essere – com’è avvenuto a Testaccio- occupato dal privato.

Non è pure lei una gentrifier?

Si, ma in senso positivo. Vivo a Testaccio da trent’anni e ho sempre tenuto in considerazione il territorio e la sua storia. In questa prospettiva ho fondato l’associazione culturale Marmorata169. Per raccontare la storia di Testaccio, primo quartiere operaio di Roma capitale, per far si che più persone ne siano a conoscenza. Lo sapevi per esempio che Gregory Corso, uno dei padri della beat generation, è sepolto al cimitero di Testaccio?

 

Nell’immagine: mappa di Roma, 1886. G. Droysens Allgemeiner Historischer Handatlas via WikiMedia Commons