Attualità

Dr. Martens, una storia orale

Dieci anni fa iniziava il ritorno delle Dr. Martens dopo un periodo di crisi nera. Un punto su cosa è oggi, e cosa è stato in passato, questo brand storico.

di Silvia Vacirca

Gli stivali Dr. Martens sono tutto quello che l’adolescenza ci ha negato: essere popolari e bruttissimi che, poi, è la fine che fanno tutte le celebrità, tutte tranne Lauren Hutton, in grazia di Dio sulla cover di Vogue Italia di ottobre. Non c’è alcun dubbio che viviamo nell’epoca delle scarpe brutte. Risale alla London Fashion Week del Settembre 2016 il tentativo, quasi riuscito, del designer Cristopher Kane, di imporci le Crocs, l’anno dopo ci prova Balenciaga. Ma le scarpe brutte per eccellenza, passate da simbolo controculturale a classico della moda, sono le Dr. Martens. Nonostante l’azienda abbia attraversato una fase difficile nei primi anni Zero, quando trovare un paio di Dr. Martens non era più cosa facile, è riuscita a sopravvivere e il 23 Ottobre di questo anno ha riportato un profitto annuale di 384 milioni di dollari. In un periodo in cui il mondo del retail è in sofferenza, con department store e negozi tradizionali che chiudono, Dr. Martens registra una crescita del 38 per cento nel settore retail e di più del 50 per cento nelle vendite online. Questo significa che i giovani asiatici le percepiscono come un classico dell’Occidente, e le vogliono tutte e subito.

In principio però, le Dr. Martens erano tutto meno che un classico. La storia di queste scarpe pagliaccesche e vagamente minacciose, che per le prime due settimane ti flagellano i piedi, risale al 1945 quando, siccome gli stivali della Wehrmacht gli erano scomodi, il Dottor Klaus Martens, dopo un incidente sciistico in cui si frattura la caviglia, decide di disegnare una scarpa che avrebbe aiutato il suo ricovero, grazie a una suola ammortizzata da un cuscinetto d’aria e da una pelle più morbida. I tedeschi hanno un talento tutto speciale per le scarpe brutte e comode. Nei primi dieci anni l’80 per cento delle acquirenti è composto da casalinghe teutonica sopra i quaranta. Nel 1959, Klaus Martens vende la licenza a un’antica manifattura di scarpe del Northamptonshire, la R. Griggs Group Ltd, che ne modifica leggermente la forma, aggiunge l’impuntura gialla e registra la tecnologia delle suole all’ufficio brevetti come AirWair.

Nell’aprile del 1960 il primo modello di Dr. Martens, battezzato 1460, arriva sul mercato inglese ma non diventerà subito la scarpa giovane che tutti conosciamo. In principio, ad adottarle sono soprattutto operai, postini e poliziotti. A spalancargli il regno della cultura pop inglese è il chitarrista degli Who Pete Townshend che, nel 1966, «stanco di andare in giro come un albero di Natale», decide di indossarle sul palco. Ci ha scritto anche una canzone, “Uniform” (Wear your braces round your seat/ Doctor Marten’s on your feet). Dieci anni dopo, nel film di Ken Russel, Tommy, ispirato all’album omonimo, Elton John canta Pinball Wizard su un enorme paio di Dr. Martens. Nel frattempo entrano a far parte, col risvolto, della divisa skinhead, parodia amara del mondo working class, e forse del lavoro tout court, di cui gli skinhead facevano orgogliosamente parte. L’ironia ha voluto che skinhead e poliziotti, negli anni Settanta, indossassero le stesse scarpe.

Dr Martens

Tra i decenni Settanta e Ottanta non c’è sottocultura, punk, goth, new wave, psychobilly, che non le adotti, facendole diventare l’emblema della libertà d’espressione e della ribellione contro il sistema commerciale. Anche la scena musicale grunge, da quando, nel 1994, le Dr. Martens arrivano sul mercato americano, le abbina, melanconicamente, a flanelle scolorite e jeans strappati. Adesso pure le ragazze le indossano, a fiori disegnati oppure nere con minidress e calzettoni, nel tentativo di imitare Brenda Walsh, protagonista di Beverly Hills 90210, ma con il risultato di segarci le gambe e farci sembrare ceppi ambulanti.

Persino i ragazzini del Mickey Mouse Club, negli anni in cui lanciava le carriere dei pre-adolescenti Britney Spears a Ryan Gosling, indossavano le Dr. Martens. Dal 1993 infatti gli stivali sono parte della moda mainstream e tutto sembra andare per il meglio. Poi, però, qualcosa va storto: con l’avvento del nuovo millennio, l’azienda conosce i suoi anni più bui, subisce perdite pesanti e rapidissime, tanto che passa da un fatturato di 412 milioni di dollari nel 1999 a uno di appena 127 milioni nel 2006. Nel 2003 la società è costretta a spostare la produzione in Cina e Thailandia: la delocalizzazione porterà alla perdita di mille posti di lavoro, divisi tra le sedi di Northamptonshire, Leicestershire e Somerset. La crisi nera, però dura relativamente poco. Il 2007 è l’anno del ritorno sul mercato globale, grazie a una campagna di comunicazione curata da Exposure Communications of London e la presenza sulle passerelle di Yohji Yamamoto e Chloè. Il rebranding ha funzionato così bene che nel 2013 il New York Times annuncia che il marchio sarà acquistato dal gruppo Permira per 485 milioni di dollari. Si tratta dello stesso che ha venduto Valentino al Fondo del Qatar, e che ha in portfolio anche Hugo Boss e la catena Forever 21.

Adesso, sarà anche grazie al ritorno di Twin Peaks, Winona Ryder e Baywatch, ma le Dr. Martens sono in tutti i videoclip, Miley Cyrus in Wrecking Ball indossa solo quelle, e nelle collaborazioni più cool, con Supreme, Raf Simons, Vetements e Lazy Oaf, che in uno dei due modelli realizzati per l’AI/17 ha ricoperto la tomaia di cuoricini e ha stampato gli slogan della stilista “Don’t Care” e “My Life is Boring” sulla fascia posteriore del tacco, oltre a essere state tra gli sponsor del Mi Ami Festival di Milano a Maggio. Si ritiene che le Dr. Martens tendano a tornare in tempi di turbolenze politico-sociali perché legate allo spirito di ribellione della gioventù. In realtà, a fare la fortuna di queste scarpe è piuttosto la loro natura utilitaristica, down-to-earth, e perennemente di moda, nonostante siano fuori dalla moda, assieme a possibilità di personalizzazione infinite, che ci rassicura sul fatto che il mondo possa cambiare sì, ma non ci cambierà, o almeno non così in fretta.

In apertura foto Getty; dentro il pezzo foto per gentile concessione dell’azienda