Attualità

Design futuro

Paola Antonelli, direttrice dei dipartimenti di Architettura e Design e Ricerca e Sviluppo del MoMa, ci ha raccontato quali sono le prossime frontiere del design.

di Federico Sarica

antonelli1Il ventisette marzo del 2015 al Cooper Hewitt, Smithsonian Museum di Manhattan si è tenuta la prima asta in cui sono stati battuti sette lotti contenenti semplicemente algoritmi. Fra questi: la copia manoscritta dell’algoritmo di Hello, World!, un paio di disegni originali di quello di compatibilità di OkCupid, sei righe stampate dell’algoritmo capace di decriptare il contenuto di un normale Dvd. Quest’ultimo è stato anche venduto, per 2500 dollari. C’è una pagina Wikipedia che riassume l’accaduto: sotto la voce “Effetti”, racconta che «a seguito dell’asta, il MoMa ha tenuto una conferenza intitolata The Way of the Algorithm in cui gli algoritmi sono stati definiti come “elementi onnipresenti e indispensabili nelle nostre vite”».

A pronunciare quelle parole durante l’ultimo dei Salon organizzati dal MoMa, è stata la sua organizzatrice e promotrice, nonché Senior Curator del dipartimento di Architettura e Design, nonché direttrice di quello di Ricerca e Sviluppo (R&D), del celebre museo di New York, uno dei migliori del mondo: Paola Antonelli. Antonelli, per chi non la conoscesse, è una curatrice italiana, una delle più note a livello globale, e dal 1994 si occupa di tutto il design, l’architettura e la ricerca del MoMa.

I Salon R&D del MoMa sono una delle sue creature e hanno lo scopo di fornire, attraverso dei talk, le informazioni e gli strumenti critici per identificare ed esplorare nuove direzioni e opportunità per il Museum of Modern Art. L’ultimo, quello di cui sopra, è stato appunto dedicato agli algoritmi. Non proprio la prima cosa che viene in mente quando pensi al design.

«Abbiamo di fatto comprato degli algoritmi e delle entità biologiche; è un po’ inusuale per il nostro settore»

Il nesso lo racconta a Studio la stessa Antonelli, durante una piacevole conversazione telefonica dal suo ufficio nel cuore di Manhattan: «All’inizio dell’estate abbiamo annunciato nuove acquisizioni: un rendering digitale e due modelli stampati in 3D del virus Phi-X174, innocuo per gli umani ma capace di distruggere le cellule di un batterio molto diffuso. E poi abbiamo acquisito una serie di tre sculture di design che sono frutto del lavoro comune di un celebre intrecciatore di cestini tradizionali nativi americani e di uno studio di designer che ha sviluppato degli algoritmi digitali. Abbiamo di fatto comprato degli algoritmi e delle entità biologiche; è un po’ inusuale per il nostro settore, ma è un lavoro che portiamo avanti da qualche anno, da quando nel 2008 acquisimmo delle interfacce. Molto semplicemente stiamo cercando di far capire al mondo che il design ha allargato molto la propria area di attività, di studio e di influenza. Il nostro compito è fare in modo che anche le istituzioni culturali accompagnino questa trasformazione continua».

A proposito di trasformazione continua, ne approfittiamo per chiederle quale sia il ruolo del design e dei designer in questa che è stata largamente definita la seconda era delle macchine o era digitale. Secondo Paola Antonelli ci troviamo già in una fase successiva, in cui i designer assumono un ruolo ancora più centrale: «Più che trovarci nella seconda era delle macchine, secondo me siamo nell’era della biologia. In un certo senso le macchine stanno cambiando anche loro e stanno diventando molto più organiche e biologiche. Io penso che i designer, come sempre quando sono bravi, funzionino da interfaccia tra le rivoluzioni scientifiche e tecnologiche e la nostra vita. L’innovazione vera non può avere luogo senza il design, perché gli scienziati possono scoprire le microonde, possono inventare Internet, ma senza i designer che creano l’interfaccia o che disegnano i forni, tutte queste innovazioni non diventerebbero vita. Quindi, più ci troviamo di fronte a cambiamenti che incalzano, più i designer diventano fondamentali».

antonelli3Inutile nasconderci che questo discorso tutto proiettato al futuro stride abbastanza con gli argomenti tipici con cui viene declinato il design, soprattutto italiano, in giro per il mondo. Con uno sguardo spesso molto rivolto al passato, alla splendida eredità dei cosiddetti maestri del design made in Italy. Anche noi a Studio, l’unico designer che abbiamo messo in copertina è Alessandro Mendini, splendido ultra ottantenne… «Per qualche motivo che mi sfugge, pigrizia mentale credo – ragiona ad alta voce Antonelli – o anche soltanto il fatto che la generazione che governa la cultura spesso è la stessa di quella dei maestri del design, tutti continuano a parlare del made in Italy pensando ai grandi del passato: Zanuso, Sottsass, Castiglioni, Gae Aulenti. Sì, io penso che sia soprattutto pigrizia mentale; lo vedo nel mio lavoro di curatrice: a volte non so abbastanza di design cinese perché non mi viene servito su un piatto d’argento, e devo andare quindi a farmi una ricerca in proposito. La stessa cosa riguarda i designer italiani delle nuove generazioni, che ci sono e sono bravissimi: invece di averli tutti già inanellati e e impacchettati in un comunicato stampa, toccherebbe fare un po’ di ricerca. E in pochi la fanno».

Qui sappiamo di scivolare su un tema cui Paola Antonelli è molto sensibile e a cui ha dedicato tempo, ricerca, intelligenza, ragionamenti: quello del ruolo del curatore. In un mondo in cui l’accessibilità ai contenuti si moltiplica a livello esponenziale con cadenza quotidiana, il ruolo di chi questi contenuti deve scovarli, selezionarli e presentarli al pubblico, cresce enormemente. È così? «Ci sono vari tipi di curatori, però direi che la prima caratteristica che devono avere in comune è l’alto grado di fiducia che le persone hanno in loro. E quando dico le persone, posso intendere una piccola comunità specializzata oppure una moltitudine, cambia poco, l’approccio deve essere sempre quello di conquistarsi la fiducia del proprio pubblico. E qui arriviamo al secondo punto: il curatore ha un pubblico, non è un artista davanti allo specchio, è fondamentalmente un comunicatore e ha per forza di cose bisogno di un pubblico. Quindi: fiducia e pubblico. La cosa interessante è che se guardi questi due attributi principali, quello del curatore è molto simile al lavoro del giornalista». Il ragionamento continua: «Quello che fanno i curatori è comunicare la propria specializzazione, la propria ricerca in un campo, che si tratti di manoscritti medievali, di design contemporaneo, di sculture di Picasso o di vini rossi. Questo approccio della guida fidata si può applicare oggi a moltissimi campi: per quello la parola curatore si è espansa così a macchia d’olio. Credo sia utile aggiungere qualcosa sulla formazione dei curatori, sul metodo: ci sono due approcci diversi, che sono anche in questo caso molto simili al giornalismo. Io ho sempre trovato interessante l’approccio di tipo italiano: studi e approfondisci una tematica e poi comunichi il tutto attraverso delle mostre, dei saggi, delle conferenze. Magari all’inizio pecchi un po’ dal punto di vista comunicativo, non sai fare le cose perfettamente, però poi affini le tue tecniche di comunicazione e costruisci il tuo modo di interpretare questo mestiere. Qui negli Stati Uniti, invece, ci sono le scuole di curatela così come ci sono quelle di giornalismo, per cui impari il metodo prima dei contenuti; ed è altrettanto interessante. Trovo che il metodo italiano abbia ovviamente delle pecche: per esempio, per quanto riguarda il giornalismo, ci vorrebbero degli editor molto più duri perché spesso la prosa è insopportabile. Qui invece succede che hai questi editor meravigliosi e molto scrupolosi per cui finisce che gli articoli del New Yorker, per esempio, li bevi come fossero acqua fresca. Sono due approcci diversi: uno più di contenuto e uno più di metodo, per semplificare. Il mio preferito resta: studi qualcosa e poi scegli di utilizzare tutte le piattaforme a tua disposizione per comunicarlo».

Con risultati eccellenti, ci sentiamo di aggiungere.

 

Dal numero 25 di Studio.
Fotografie di Geordie Wood.